Brevi saggi più o meno concupiscenti/23

Meglio perdersi nella passione che perdere la propria passione

Redazione

La voglia di scopare è essenzialmente desiderio di fiction, brama di liberare l'immaginazione. “Solo la fiction può salvare dalla tremenda delusione di essere nati”, confida la nonna ad Alexander Jardin, figlio del Pascal sceneggiatore di successo del cinema francese anni Settanta.

Leggi Riparliamo di concupiscenza di Giuliano Ferrara

di Fabio Canessa

    La voglia di scopare è essenzialmente desiderio di fiction, brama di liberare l'immaginazione. “Solo la fiction può salvare dalla tremenda delusione di essere nati”, confida la nonna ad Alexander Jardin, figlio del Pascal sceneggiatore di successo del cinema francese anni Settanta, “la felicità appartiene a coloro che si raccontano storie gustose e che hanno la capacità – o il coraggio – di crederci”. Convinta che i romanzieri siano superiori ai geometri e che la lucidità sia una trappola, l'arzilla nonnina è la matriarca di quella che il romanzo autobiografico di Jardin definisce, fin dal titolo, “Una famiglia particolare”. Il cui unico insegnamento raccomandava di “amare in maniera irragionevole e, se possibile, rovinosa”. Per questo l'ingorda vecchietta dormì fino all'ultimo giorno con le finestre aperte, “nel caso in cui un ladro lubrico avesse avuto il buon gusto di restituirle le vertigini dei suoi sedici anni”, e consigliava ogni sera alle nipoti di fare altrettanto: “Non si sa mai! Perdersi un orgasmo le pareva l'inizio della decadenza morale. L'astinenza carnale sulla soglia della vecchiaia la scandalizzava”.

    Per questo, l'ex-convento in cui la famiglia Jardin ha vissuto, e il piccolo Alexander è cresciuto, non solo ospitava ogni giorno stuoli di amanti di entrambi i sessi che servivano ad appagare i sensi di papà e mamma, spensieratamente adulteri al punto che definirli una coppia aperta suona come un pudico eufemismo, ma prevede come appendice un capanno riservato alle coppie illegittime, amiche di famiglia, sul tetto del quale i piccoli Jardin sbirciavano, fin dalla tenera infanzia, i più spericolati e perversi giochi erotici. Come quelli di due coniugi che, in forma clandestina, usufruivano separatamente del capanno per farsi frustare dai rispettivi amanti. Ricorrendo a “sotterfugi complicati” per “ottenere beatitudini identiche”, sono la prova di come le coppie non siano che “delle macchine destinate a non capirsi e a vivere di sogni”. Anzi, destinate a non capirsi proprio perché la concupiscenza si nutre di sogni, spesso incomunicabili e privatissimi, in quanto frutti dell'immaginazione più intima. “Strapieni di vitalità e avidi di contraddizioni”, i Jardin elevano l'erotismo a forma d'arte, per allergia al mondo borghese benpensante e “come un atto di resistenza contro l'afflosciamento contemporaneo”. La loro è una scelta di stile, aliena dal senso del limite e da ogni macchia che potrebbe contaminare con la moralità una spensierata adesione a tutte le forme di piacere. Un'“allegria tragica”, che non si arresta di fronte ai numerosi suicidi in famiglia, un “talento per ravvivare la quotidianità” che si compiace di incredibili bizzarrie.

    Il gustoso resoconto contiene una tenia che viene trasferita dal ventre della governante, amante del nonno, a quello della nonna, un amico di famiglia eroinomane che si accoppia more uxorio con una scimmia, che finirà uccisa da un'overdose, una caccia allo yeti stimolata “da inedite prospettive erotiche” per chi sogna “una seduta fornicatoria con la creatura neandertaliana”, uno zio pedofilo, un nudista integrale dall'età di dieci anni continuamente arrestato dalla polizia, la regola di battere i radiatori con le scarpe per comunicare le proprie copule ai familiari, il pappagallo dell'amante della nonna tumulato nella tomba di famiglia, sodomizzazioni improvvise, una poligamia diffusa come norma, una stanza foderata di riviste pornografiche che raccoglie “tutti i coiti d'Europa, tutte le perversioni impilate in fragili verticali” e altre delizie simili. Il motto, che potrebbe ergersi a stemma araldico dei Jardin, è “Chi si perde nella propria passione ha perduto meno di chi perde la propria passione”. Quest'orgia di “disordini affettivi” e “virtuosismi fellatori” appare come l'unico modo di “fare crepitare gli attimi, di tuonare per coprire gli accordi del quotidiano”. Per far sì che “la nostra vita immaginaria avesse lo stesso peso, se non maggiore, della nostra vita reale”. La fame di sesso si identifica con il bisogno di “romanzesco”.
    E per liberarsi di questa non-educazione, Alexander Jardin, oggi quarantenne, dopo che i bislacchi componenti della sua famiglia sono quasi tutti nella tomba e quel mondo appartiene ormai a un passato insieme inquietante e spassoso, regola i conti scrivendo appunto un romanzo, per serbare ricordo di quel “repertorio sentimentale strampalato” e contemporaneamente per liberarsene.

    Con un misto di affetto e repulsione che traspaiono da questo Bildungsroman alla rovescia, un romanzo di deformazione. Solo con “la santa follia della scrittura” è possibile esprimere la folle verità di un mondo costruito sulla menzogna, ebbro della propria sfrenata immaginazione, incapace di sottomettersi alle regole della normalità. Incantato dall'aver visto “per davvero il cinismo in azione” e al tempo stesso incredulo di essere uscito da quel bordello di follie senza essere passato dal manicomio, lo stesso Alexander si descrive come “un sognatore che detesta il reale e apprezza solo la verità”, definizione che calza a pennello anche per il dna dell'arte narrativa. Un buon romanzo è per l'appunto “una menzogna che dice la verità”. E nel finale di quello di Jardin arriva addirittura Alain Delon, figura che incarna alla perfezione una natura ibrida fra vita reale e dimensione da fiction, per ammonire lo scrittore a non aprire il diario che contiene la storia vera della famiglia Jardin e di scegliere al contrario quell'affascinante impasto di ricordi e immaginazione di cui è fatto il nostro sguardo sulle cose, ma, prima ancora, di cui si alimenta ogni nostra esperienza erotica.

    La concupiscenza diventa così misura dello stare al mondo, metafora sperimentabile quotidianamente dell'essenza stessa della vita. Stendhal, più pessimista nei confronti della capacità umana di relazionare con il reale, delegava la sfera erotica interamente all'immaginazione: “L'uomo – scrive in “De l'amour” – ama soltanto ciò che è amabile, ciò che è degno di essere amato. Ma non esistendo – a quanto pare – nella realtà, deve immaginarselo. Le perfezioni immaginarie sono quelle che suscitano l'amore”. Ne consegue che amare significherebbe di per sé cadere in errore. Ariosto e Proust sarebbero d'accordo. Non certo José Ortega y Gasset, fine esegeta del desiderio amoroso, al quale ha dedicato pagine illuminanti. Senza approvare le scatenate depravazioni dei Jardin, ne condividerebbe però l'assunto di base, cioè la stretta parentela tra erotismo e letteratura, entrambi figli delle fantasticherie private. Anzi, Ortega y Gasset va oltre, dimostrando come l'unico modo per svelare l'intimità decisiva del carattere di ognuno sia analizzare la scelta dell'amata. Partendo dal presupposto che “siamo, innanzi tutto, un sistema innato di preferenze e rifiuti”, e che la “commedia delle buone intenzioni”, formata dalle azioni e dalle parole che recitiamo, in buona fede, per gli altri e per noi stessi, è solo una pantomima sociale frutto di idee ricevute, individua nella “scelta in amore” lo smascheramento dell'essenza della personalità. L'unica crepa che ci consenta di sondare in profondità il nostro animo più autentico. E' naturale che “l'uomo si senta attratto, trascinato verso la donna che ancheggia davanti a lui”: senza questa pulsione non esisterebbero né il vizio né la virtù. Già Beaumarchais aveva scritto che “bere senza sete e amare in qualsiasi momento è l'unica cosa che distingue l'uomo dall'animale”.

    Colpa, o merito, ancora una volta, dell'immaginazione, altra caratteristica peculiare della razza umana. “Se l'uomo – argomenta Ortega y Gasset – non possedesse un'immaginazione così generosa, non riuscirebbe ad ‘amare' sessualmente, come invece fa, ogni volta che se ne presenta l'occasione”. Ed è ingenuo liquidare la faccenda, raccontandoci che si tratta di istinto: “La maggior parte degli effetti che si attribuiscono all'istinto non deriva da esso. Se così fosse, si manifesterebbero anche nell'animale. Per i nove decimi quanto viene attribuito alla sessualità è opera del nostro magnifico potere di immaginazione, che non è un istinto, ma il suo esatto contrario, ossia una creazione”. Chissà se le femministe sarebbero d'accordo con le conseguenze che Ortega y Gasset ne trae, affermando che la maggiore moderazione sessuale della donna deriverebbe da un minore potere immaginativo. In ogni caso la scelta d'amore non è mai veramente libera, ma dipende “dal carattere innato del soggetto”. C'è chi si innamora solamente di un corpo e chi di un'anima, a seconda della “propria specifica essenza”: ma, in entrambi i casi, la scintilla scocca dalla visione esteriore. Dalla quale è un luogo comune pensare che si scorgano solamente le caratteristiche fisiche: “Quando ci confrontiamo con una creatura della nostra specie ci si svela immediatamente la sua intima condizione”.

    La conoscenza visiva è fondamento di ogni tipo di concupiscenza. Ma, poiché niente accade senza motivo, la fonte dell'attrazione è originata dalla razionalità che presiede alla tessitura delle nostre relazioni, cioè della nostra vita. Si potrebbe perfino ripercorrere la storia del mondo, analizzando la “storia dei tipi femminili che man mano sono stati preferiti”. L'amore dunque non è cieco. Anzi, ci vede benissimo. E se gli capita di sbagliare, condivide l'errore con gli occhi e le orecchie. Ma, al contrario di quanto pensava Stendhal, l'amore ha sempre bisogno di un oggetto che mostra “qualche motivo di affinità che ci porti a supporre che quella donna, e non un'altra” sia “substrato e soggetto di quelle grazie affascinanti” che sembrano accordarsi perfettamente ai nostri desideri. Avete mai fatto caso che le persone, per tutta la vita, perseverano “all'interno di un invariabile schema di scelta amorosa”, rappresentato magari da donne diverse? Occorre certo distinguere tra l'arrapamento effimero e l'amore, che tende a essere esclusivo e “implica un'intima adesione a un certo tipo di vita umana che ci sembra il migliore e che troviamo già formato, incarnato in un altro essere”.

    Mentre l'impulso sessuale può scattare dieci volte al giorno, nell'arco di un'esistenza non si contano più di tre o quattro amori. Tutto però dipende “dal carattere innato del soggetto”. E tutto è innescato da quella prodigiosa capacità immaginativa che ci rende avidi di fiction. Per questo i grandi amori della letteratura sono inappagati, dalla Beatrice di Dante e dalla Laura del Petrarca in poi: condannati a sublimare il desiderio, i poeti non possono cantarne la realizzazione. “L'amore puro è amore che non si realizza, tutto tensione, affanno, anelito” e “il desiderio muore automaticamente quando si realizza, finisce quando si appaga”. Insomma, l'appagamento è la morte della concupiscenza. La lussuria è allora l'esatto contrario dell'istinto, è “una creatura specificamente umana”. “Come la letteratura – chiosa José Ortega y Gasset – in entrambe, il fattore più importante è l'immaginazione”. Bisognerebbe quindi studiare la lussuria “come un genere letterario che possiede origini, leggi, evoluzione e limiti propri”. Che errore affidarla agli psichiatri! (foto: Luc Fournol, “Ritratto di Alain Delon”, Parigi, 1958)

    di Fabio Canessa

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