Brevi saggi più o meno concupiscenti/10
Il piacere è narciso
Non ho nessuna intenzione di parlare delle mie personali esperienze sul tema proposto da Giuliano Ferrara come compito per le vacanze. La concupiscenza infatti è teoricamente interessante negli altri, ma poco credibile nelle confessioni personali. Io, poi, mi esporrei al rischio di rendere sospetta la testimonianza.
Leggi Riparliamo di concupiscenza di Giuliano Ferrara
di Saverio Vertone
Non ho nessuna intenzione di parlare delle mie personali esperienze sul tema proposto da Giuliano Ferrara come compito per le vacanze. La concupiscenza infatti è teoricamente interessante negli altri, ma poco credibile nelle confessioni personali. Io, poi, mi esporrei al rischio di rendere sospetta la testimonianza perché troppo filtrata dalla memoria; oppure di apparire affetto dalla sindrome erotomaniaca senile di De Clairenbaudt (un medico della Salpetrière che, alla fine dell'Ottocento, descrisse le intemperanze di un signore ultraottantenne, cateterizzato da anni, al quale non si poteva far vedere una donna senza scatenare un putiferio). Del resto negli svolgimenti in prima persona più famosi (Casanova, De Sade) sembra prevalere quella particolare concupiscenza di sé che è il narcisismo, e cioè un desiderio opaco e ossessivo, accompagnato da piaceri statistici, aridi, e dalla prigionia nella solitudine. Io preferisco di gran lunga la concupiscenza esterna, quella che punta a ciò che sta fuori di sé e che in qualche misura si sublima in metafisica, perché fuori di me comincia un mondo che sta sopra di me. La via più ricca di sorprese per scivolare nel fondo di noi stessi e di lì spiare ciò che ci attira fisicamente e spiritualmente negli altri, passa a mio avviso attraverso la filologia, e cioè attraverso la spremitura a freddo delle parole per ricavarne il significato nascosto. Il frantoio da usare è quello dell'analisi etimologica.
Lì c'è tutto quello che serve non già per esercitare la concupiscenza ma per evocarla e capirla.Tanto per cominciare, ammetterete che la parola concupiscenza ha a che fare con il verbo concupere e che il verbo concupere, della tarda latinità, rimanda a quello assai più fresco e giovanile di cupere. Né potrete negare che cupere (da cui Cupido, figlio di Venere) vuol dire semplicemente desiderare. Qui, però, casca il povero asino, perché: da dove viene allora desiderare? Credo che pochi lo sappiano, anche se è facile avvertire nel fondo del comune sentimento linguistico una strana risonanza con parole quali considerare e assiderare, dove si agita e scalpita la radice latina di sidus “astro” o meglio “metallo” (da cui “siderurgia”).
Ed ecco il colpo di scena. Infatti sarete certamente sorpresi nell'apprendere che il verbo italiano desiderare è un prestito dal gergo militare romano. Negli eserciti degli Scipioni, dei Pompei e dei Cesari, organizzatissimi, stando a Polibio, una squadra di tribuni era incaricata di redigere, durante la notte, l'elenco dei soldati che non si presentavano all'appello dopo la fine di una battaglia. Per considerarli morti la prassi imponeva di aspettare il mattino seguente, quando si poteva sigillare l'accaduto nella formula rituale, che recitava testualmente: tot milia militum desiderati sunt. Con questo giro di parole si voleva semplicemente far sapere che quel dato numero di soldati era stato aspettato invano (e con trepidazione) fino al tramonto delle stelle. Appare così finalmente chiara la parentela tra considerare (osservare alla luce delle stelle), assiderare (perdere calore nella notte stellata) e desiderare. Il senso della mancanza e della trepidazione è dunque passato (chissà attraverso quali peripezie) dal gergo militare al linguaggio comune, e indica ormai l'attesa di una cosa che sfugge, e in generale l'impulso che ci porta fuori di noi stessi, con trepidazione e amore per ciò che ci aspetta. Nel termine, come nell'esperienza pratica, è rimasta conficcata la spina di quella attesa trepidante, di quella speranza di veder comparire qualcuno, di quel timore di perdere una percezione segreta della vita, che sono appunto la delizia ma a volte la croce e l'esasperazione del desiderio.
Quando l'esasperazione prevale si passa appunto dalla leggerezza dell'amore alla pesantezza della concupiscenza, che è una forma, non priva di fascino, e però ossessiva, maniacale e spesso distorta del desiderio amoroso. C'è già tutto nella lingua, perché è evidente che concupere è un'esagerazione di cupere, cioè un'intensificazione del desiderio, che ci porta prima o poi a sbattere nella parola libidine. Strano destino quello riservato a libido, nell'area latina. La radice è così innocentemente apparentata al tedesco Liebe, al russo ljubov e all'inglese love (tutte parole legate all'aquilone trasparente dell'amore) da rendere poco credibile il significato losco che libidine ha assunto in latino e ancor più in italiano slittando verso il fondo melmoso, cupo, illuminato dai lampi sinistri del concupire, e cioè di un sentimento che non ha più nulla a che fare con il volo dell'aquilone. Al punto che, per colmare la lacuna, già i latini dovettero ricorrere a una radice etrusca (amu) o forse addirittura egizia (meri), da cui amor e quindi amore.
Entrando finalmente in medias res, anticiperò qui, con un certo ritardo, il mio giudizio finale sulla concupiscenza. La quale è una forma estrema di desiderio, che si accanisce proprio là dove incontra la massima resistenza: per un ostacolo fisico o un divieto morale. E mi sembra che pochi uomini abbiano sperimentato fino in fondo questa condizione psicologica come sant'Antonio nel deserto al momento delle sue famose tentazioni, durante le quali pare che il diavolo lo abbia stimolato sia con la concupiscenza, e quindi con l'apparizione di corpi femminili in posizioni provocanti, sia con la cupidigia, attraverso la promessa di mettere nelle sue mani città e imperi del mondo (vedere in proposito Flaubert). Dobbiamo dunque al cristianesimo e alla Chiesa cattolica la preservazione di un modello addirittura ingigantito del più prezioso giocattolo (il culto mistico del sesso) di cui siamo stati forniti dalla natura o da Dio. Ed è interessante notare come questo giocattolo rischi di andare in frantumi proprio adesso, in seguito alla liberazione sessuale che, abbattendo l'ostacolo, ha abbassato la tensione (come capita ai bambini, quando smontano le loro macchinette per vedere cosa c'è dentro).
In ogni caso l'abbattimento dell'ostacolo ha consentito la dispersione in rivoli sparpagliati di quella particolare energia che occorre per desiderare l'anima di un'altra persona attraverso il suo corpo. Del resto, anche le centrali elettriche producono watt solo se a monte è stata alzata una diga e sono state incanalate nella condotta forzata le acque che altrimenti sarebbero scese allegramente in ruscelli sparsi e deboli verso la pianura. Solo la condotta forzata fa girare a pieno ritmo le turbine. E questo è il Viagra dell'elettricità.
Per parlare di me solo un momento, devo riconoscere che l'altissima diga che regnava ai tempi della mia giovinezza mi ha permesso di accumulare un capitale di interesse per i grembiuli bianchi delle mie compagne di scuola (ma non di aula), sufficiente per vivere a lungo di rendita, almeno sotto l'aspetto della curiosità, anche senza bisogno dei grembiuli. E, visto che ormai ho tralignato, non mi priverò a questo punto del miserabile piacere di dire una cosa sensata e cioè che tra repressione e liberazione, tra accumulo della diga e libero flusso dei ruscelli è tutta questione di misura: la diga ci vuole, ma ovviamente non deve essere troppo alta, altrimenti compaiono i talebani.
Di Viagra in Viagra possiamo così approdare felicemente alla “seduzione” esercitata dalle vesti che ricoprono un corpo, il quale a sua volta nasconde quella cosa indefinibile che chiamiamo anima, soffio, alito, psiche. Ed è qui che incontriamo la parola “lascivia”, passaggio tanto gradito quanto obbligatorio. Secondo il vocabolario etimologico del Meillet, l'aggettivo lascivus vale il francese folâtre, joueur, pétulant. Meillet aggiunge: “Se dit des animaux, des enfants: lasciva capra, lasciva puella (Vergil). De là ‘provoquant', ‘agaçant', et par suite ‘qui provoque le désir, lascif, licencieux : lascivum femur (Ovide)”. Interesserà sapere en passant che il termine latino foemina viene appunto da femur. Questa ulteriore scorribanda nelle lingue suggerisce un'interpretazione speculare della parola concupiscenza, proprio attraverso la parola lascivia. Mi pare difficile infatti usare questa espressione per descrivere l'eccitazione sessuale di un uomo, mentre si adatta benissimo a quella di una donna, perché rimanda al desiderio di suscitare desiderio nel corpo altrui e ci permette di attribuire al piacere femminile il quadrato della sensualità in quanto piacere del piacere.
Naturalmente questa provocazione non ha niente a che fare con l'esibizionismo maschile che è una millanteria stupida esercitata a spese del proprio stupidissimo organo (che non a caso i latini hanno deriso chiamandolo mentula, piccola mente, per la sua pretesa di fare di testa sua senza ubbidire a nessuno). Lascivia invece è alludere con intelligenza, scoprirsi coprendo, fuggire per farsi inseguire, accarezzare per essere accarezzate, non guardare per essere guardate, apparire eccitate per eccitare, chiudere e muovere gli occhi per farne rifulgere la luce, parlare usando la voce come uno strumento di richiamo, esprimere valutazioni, giudizi, sensazioni per attirare la curiosità su ciò che sta dentro l'involucro del corpo, il quale si muove attraverso il rivestimento simbolico e enfatico degli abiti che accentuano e interpretano le sinuosità femminili.
Sarebbe però interessante capire che cosa significhi oggi l'esibizione dell'ombelico, a quale seduzione, tra le tante possibili, appartenga l'esposizione della pancia e dell'orlo delle mutande. Sicuramente c'è un logos anche in questo, perché per quanto effimera la moda esprime sempre movimenti assai più profondi di quelli che ostenta. C'è un senso in tutto ciò che sembra non avere senso. Ma per eliminare ogni dubbio sulla femminilità della lascivia, basta chiedersi chi può essere definito lascivo tra Marco Antonio e Cleopatra, o tra James Bond e Kim Basinger e ancora tra Paul Newman e Sharon Stone. E' chiaro comunque che Cleopatra e anche Madonna (la cantante) eccellono nel meritarsi l'aggettivo. Il quale invece non si addice quasi mai alle veline, tuttalpiù procaci ma raramente seducenti (lascivus femur = coscia procace).
E adesso basta con le parole. Continuerò a servirmi di vocaboli senza disturbare le loro viscere. E cercherò di trovare l'origine di ciò che chiamiamo sesso, attrazione sessuale, istinto, attraverso uno sforzo della mente (che spero non si comporti come una mentula). Non sono un biologo, ma so che chi studia la materia ha scoperto da tempo la presenza nel nostro organismo di sostanze chimiche in qualche modo imparentate con le droghe (si chiamano endorfine). Questi stupefacenti naturali ci aiutano ad attraversare momenti difficili o a esaltare quelli piacevoli. La cosa strana è che queste endorfine compaiono sia durante l'orgasmo (e si chiamano “orgasmine”) sia durante l'agonia (e si chiamano “agonine”). A quanto ne so la composizione delle orgasmine e delle agonine è identica. Le prime servono a esaltare il piacere durante l'accoppiamento, le seconde ad attenuare il dolore degli spasimi mortali e a stampare sul volto dei moribondi quell'indefinibile sorriso di riconciliazione con il mondo che si pietrifica poi nell'espressione dei defunti.
Questa parentela chimica ci porta all'origine della materia vivente, della procreazione e della morte, e unifica questi tre aspetti della nostra esistenza (vita, riproduzione e decesso) facendoci intravedere il primo anello di quella lunga catena biologica alla quale siamo appesi anche noi come anello terminale. Gli organismi unicellulari, che sono stati i primi a comparire in questa catena, si riproducevano semplicemente morendo. Strangolandosi da sé, la cellula a poco a poco si spaccava a metà. A quel punto erano nati due nuovi esseri viventi, e la morte coincideva in termini immediati con la procreazione e con la nascita e dunque con la vita. E' una singolare coincidentia oppositorum, che mi impone di tornare ancora una volta sulle parole, evocando dall'antichità greca il mito di Eros e Thanatos, e dalla lingua francese la definizione dell'orgasmo come “pétite mort”.
Non so se le cellule, dividendosi, provino lo stesso piacere che noi proviamo accoppiandoci. Loro si dividono per sdoppiarsi e noi ci uniamo per raddoppiarci. Forse siamo più fortunati noi. Ditemi però se tutto questo non nasconde e allo stesso tempo non rivela un significato misterioso e inesorabilmente sfuggente di ciò che sappiamo del desiderio, dell'eros e del sesso. A me pare che proprio in questo punto preciso (come nella nascita dell'universo, il famoso Big Bang) la scienza si affacci sulla trascendenza dell'ignoto; e che con tutte le sue esagerazioni, la concupiscenza si riveli come l'esasperazione di un'insaziabile curiosità che tende a trascinarci fuori dei nostri limiti. Ci sono indubbiamente modi migliori per guardare fuori di noi. Ma questo è il più frequentato e comune, proprio perché combina strettamente impulsi materiali e spirituali, sensibili e mentali (mentula a parte).
di Saverio Vertone
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