Brevi saggi più o meno concupiscenti/6
Eretti e contraddetti
Ma quando fu che i discorsi sulla concupiscenza, sulla sua negazione come via per raggiungere il libero arbitrio, furono espulsi dalla cultura popolare? Come fu che lo “scandalo sessuale” divenne qualcosa della quale accorgersi a intermittenza, magari seguendo la cronaca giudiziaria, e non più il semplice, vecchio, risaputo, e anche un tantino noioso “stato di natura”?
Leggi Riparliamo di concupiscenza di Giuliano Ferrara
Ma quando fu che i discorsi sulla concupiscenza, sulla sua negazione come via per raggiungere il libero arbitrio, furono espulsi dalla cultura popolare? Come fu che lo “scandalo sessuale” divenne qualcosa della quale accorgersi a intermittenza, magari seguendo la cronaca giudiziaria, magari con magniloquente e indignata sorpresa, e non più il semplice, vecchio, risaputo, e anche un tantino noioso “stato di natura”, nel quale siamo immersi fin dalla nascita, e dal quale l'intelletto dovrebbe, a fatica, liberarci? Come accadde che ci dimenticammo che lo “scandalo sessuale” non avviene ogni tanto, ma ogni giorno che Dio manda in terra, e dentro tutti noi?
La riflessione cristiana sulla concupiscenza nasce sin dall'inizio, dalla Prima lettera di San Giovanni (II, 15, 16, 17): “Non amate il mondo, né ciò che è nel mondo, l'amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno”.
Ma le origini sono ancora più antiche. Il termine, nel suo significato di costrizione della (e dalla) natura, viene usato per la prima volta da Aristotele, nell'Etica Nicomachea (I, 5, 15): “Si pensa, non a torto, che gli uomini ricavino dal loro modo di vivere la loro concezione del bene e della felicità. Gli uomini della massa, i più rozzi, l'identificano con il piacere, e per questo amano la vita di godimento. Sono tre, infatti, i principali tipi di vita: quello or ora menzionato, la vita politica, e, terzo, la vita contemplativa”. Aristotele, a scanso di equivoci, aggiunge subito dopo: “Orbene, gli uomini della massa si rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie, e pur capita che se ne parli per il fatto che molti individui altolocati hanno le stesse passioni di Sardanapalo”.
Dopodiché sia Aristotele che i cristiani impugnano il bisturi operando le dovute distinzioni. Aristotele con la teoria della “temperanza”, passata alla storia con la fastidiosa frase “in medio stat virtus” (L'Etica Nicomachea è popolata di pazzi furiosi che abbisognano di temperanza per gestire i propri eccessi, non di uomini e donne dalle medie passioni). I cristiani con un'opera di ammorbidimento dell'ascetismo estremo dei Santi Padri della Chiesa, secondo la quale la concupiscenza della carne diventa buona nel matrimonio, la superbia della vita si santifica nel produrre azioni buone agli altri, e la concupiscenza degli occhi trova il suo giusto compimento nella vita contemplativa quando essa non cade nell'ozio o nell'eresia “quietista” (fondata da Miguel de Molinos, che intendeva passare la vita “perinde ac cadavere”, come un cadavere).
Ma su una cosa tutti erano d'accordo: bisognava quotidianamente strappare, anche a morsi, il cervello dell'uomo e della donna, o la loro “anima intellettiva”, dalla orripilante natura e dalle grinfie delle sue meccaniche necessità mediante le quali la natura deve perpetuare se stessa: prima fra tutte l'erezione, l'erezione “in sé”, un'erezione che non ha più cause, tranne appunto quella della perpetuazione della specie. La lotta contro la concupiscenza è sempre stata, in primo luogo, una lotta contro l'erezione, questa demente alterazione del corpo (laddove non è nobilitata da altro) che riguarda l'organo erettile per eccellenza: la clitoride, della quale l'organo maschile non è che una pallida imitazione. Genesi, III, 16: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. L'organo sessuale maschile è la parte femminile di ogni uomo.
Contro questo “istinto”, contro quest' “alien” (in effetti gli somiglia), installato nel nostro organismo, e che a volte mettendo fuori la testolina pare vivere di vita propria rubandoci la nostra, il tentativo di infibulazione del pensiero è stato il più alto grado di civiltà raggiunto dall'uomo. Attenzione: del pensiero. Ibn Rushd, noto come Averroè, il più grande studioso di Aristotele del mondo arabo, “colui ch'el gran commento feo” (Dante, Inf. IV, 144), fu processato nel 1194, esiliato a Cordoba e i suoi libri bruciati. A proposito di Averroè, Bertrand Russell scrisse che la sua opera fu più utile al cristianesimo che all'islamismo. Ci crediamo: egli parlava di “anima intellettiva” mentre i compaesani affilavano i coltellacci. L'infibulazione del pensiero fu quella Teoria (fortunatamente, da queste parti, non si praticano pratiche) che lasciava tutte le cosine al posto “naturale”, tranne, appunto, il pensiero.
Di tutto questo si è persa traccia. Nel 1937 Karl Rahner, a Innsbruck, tenta di riprendere il discorso con un “programma di teologia della predicazione”, ma lo fa con l'atteggiamento manifesto di chi deve, in qualche maniera, ricominciare daccapo, lo fa con l'obiettivo esplicito di risollevare il cristianesimo dall'“arido abitudinario” al quale si era ridotto, lo fa con l'atteggiamento di chi è costretto a scoprire l'acqua calda eppure sa che deve farlo. Non interessa entrare qui nel merito della teologia rahaneriana (ancora ci litigano sopra a causa del Concilio Vatiano II), interessa notare invece come la concupiscenza sia diventata una materia per iperspecialisti, per teologi raffinati e di potere, quando invece immaginiamo un'epoca non troppo lontana in cui questi discorsi si potevano fare all'osteria. Oggi viviamo invece tra “aridi abitudinari” che hanno perso ogni idea di “percorso”, che tendono a salvarsi l'anima esclusivamente attraverso la confessione, e tra laicisti che ritengono sano il sesso se fatto tra “adulti consenzienti”, tranne poi scavare all'inverosimile sulle cause di questo consenso: che è cosa impossibile da fare, tu puoi prendere un uomo, frustarlo, gettarlo in carcere se la tua epoca lo consente, umiliarlo, sputargli, metterlo sopra il cavalletto spagnolo, ma non potrai mai conoscerlo al punto da indovinare le cause di ogni suo consenso, una conoscenza di questo genere è riservato ai più alti gradi dell'amore e della compassione. (“Adulto consenziente”? Ascoltane il suono. Non sembra anche a te una malattia della ragione? Io ho archiviato l'“adulto consenziente” tra la categoria dell'“anziano incontinente” e quella del “giovane imbecille”).
Come è accaduto tutto questo? Mi piace farne risalire le cause a Jacques-Bénigne Bossuet, giusto perché, in qualche modo, è dalla “nostra” parte. Sono affezionato a Bossuet, gli sono affezionato per due motivi, due motivi opposti. Il primo motivo è che il suo “Trattato della concupiscenza” è l'ultimo libro sistematico apparso sulla faccenda. Il secondo motivo è che è senza dubbio il più brutto. Non c'è più traccia di quella tensione tra teologia e filosofia, ma anche tra teologia e religione, che avevano caratterizzato le questioni sulla concupiscenza, da San Tommaso a Sant'Agostino ad Averroè. Come se la riflessione sull'argomento avesse trovato in quel momento, il 1731, data di pubblicazione postuma dell'opera, il suo punto più basso. Bossuet restituisce alla concupiscenza un linguaggio così semplice da risultare stolido, soprattutto in un'epoca, come quella del Re Sole, alla corte del quale Bossuet fu chiamato come precettore del Gran Delfino (si sostiene che i trent'anni più illuminati di questo re siano stati influenzati da Bossuet). Una corte dove la nobiltà della tradizione veniva sostituita dalla nobiltà del censo, creata appositamente da Luigi XIV perché gli fosse più fedele; dove tutta Versailles fu traforata da passaggi segreti perché il Re potesse raggiungere le sue amanti (Madame de Montespan e Madame de Maintenon); dove Bossuet intraprese una lotta senza esclusione di colpi contro il “quietismo”, e da dove, infine, si scagliò contro la Chiesa in nome del suo Monarca e della sua azione politica.
Eppure Bossuet, che non lesina, nel suo “Trattato”, attacchi feroci contro la bella scrittura (“Se ne vedono tanti che trascorrono la loro vita a tornire un verso, a pulire un periodo”), chiude il libro (invero tutto scritto in un mirabile francese) con delle elegantissime quanto incomprensibili frasi, incomprensibili, ovviamente, in quanto scritte da Bossuet: “Mio Dio, soltanto il tuo spirito Santo può operare questo prodigio; fa ch'esso sia dentro di me come un carbone ardente, che purifichi le mie labbra e il mio cuore in tal sorta che non vi sia in me più nulla di mio, e che l'incenso ch'io brucerò al tuo cospetto, nel momento stesso che verrà deposto in questo braciere ardente che accenderà nel profondo della mia anima, esali tutti i suoi fumi al cielo senza che me ne resti nulla, per mandarti un grato profumo. Ch'io non mi compiaccia che in te, che in te soltanto io trovi la mia felicità e la mia vita, adesso e nei secoli dei secoli. Amen, Amen”.
Cosa vuol dire questa vulgata in brodo? Si tratta di un tardo pentimento? Non sappiamo, non possiamo sapere, e non importa più di tanto. Quello che importa è che “Il Trattato della concupiscenza”, l'ultimo libro sistematico sull'argomento, è un libro inutile: a causa della biografia del suo autore, e a causa della maniera nella quale è trattato l'argomento (buono speriamo almeno a salvargli l'anima). L'incoerenza, che in altri possiamo ammirare comprendendola, in Bossuet non è spiegata da nessuna parte, neanche per frasi sibilline, neanche intuibile come conseguenza del suo “sistema”. Bossuet non ha un “sistema”. Non stupisce che di lì a poco vi sia stata la rivoluzione francese. Così cerco di darmi una risposta alla domanda che m'ero posto all'inizio: quando fu che i discorsi sulla concupiscenza scomparvero? Come fu che persero ogni idea di percorso di liberazione diventando un'indignazione a intermittenza? E in cosa si sono tramutati i discorsi sulla concupiscenza?
Stabilendo arbitrariamente quella data, il 1731, e osservandone quello che ne seguì, posso darmi risposte altrettanto arbitrarie. Come molti altri fenomeni, le teorie sulla concupiscenza diventarono “concupiscenza politica”, o, come si dice oggi, “lotta di classe”: dall'alto verso il basso, dal basso verso l'alto, da destra a sinistra e viceversa. Il “moderno”, dopo avere spezzettato all'inverosimile la politica, si accingeva a spezzettare anche il pensiero, che, come testimonia l'opera e la vita di Bossuet, era già diventato parecchio deboluccio. (Immagine: “Giovane vergine autosodomizzata” e “Torero allucinogeno”, opere di Salvador Dalì)
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