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Trump logora l'infedele Jeff Sessions un tweet dopo l'altro

Il procuratore generale non ha espiato la colpa della ricusazione sul caso Russia, e ora subisce la pena presidenziale standard

New York. Contrariamente a quanto si crede sull’onda della leggendaria formula “you’re fired!”, Donald Trump non ama licenziare. Preferisce sottoporre le sue vittime a logoranti assedi per costringerle a presentare spontaneamente, si fa per dire, le dimissioni. Le consuma un tweet alla volta. Sean Spicer non era uno dei suoi pretoriani, era un obolo pagato controvoglia al partito repubblicano, e il presidente aveva preso a malsopportarlo già dal primo giorno, quando si era presentato sul podio con una giacca troppo larga. Lo ha messo sotto pressione, ha creato una serie infinita di contrasti interni, ha propiziato le dimissioni del capo della comunicazione e ha scelto come suo sostituto un suo alter ego indigesto per Spicer, che in questi sei mesi ha sopportato molte cose ma non poteva sopportare la guida di Anthony Scaramucci.

 

Trump sta usando ora lo stesso metodo con Jeff Sessions, il procuratore generale che è all’origine della fortuna politica di Trump. Il suo è stato il primo endorsement di un senatore ampiamente rispettato a Capitol Hill, ed è lecito pensare che senza Sessions a fare da pontiere con l’establishment il candidato antisistema si sarebbe difficilmente trasformato in un presidente. Ma la decisione di ricusarsi sull’inchiesta ha rotto qualcosa nel rapporto fra i due, e in questi giorni il presidente sta facendo capire chiaramente che la relazione non si può aggiustare. Il logoramento trumpiano è arrivato nella fase in cui tutte le colpe ricadono sul malcapitato di turno.

 

Martedì su Twitter il presidente ha criticato Sessions per la posizione “molto debole” – “molto” era scritto minacciosamente tutto maiuscolo – che ha preso “sui crimini di Hillary Clinton e sui leaker di intelligence”, attacco arrivato a una settimana di distanza dall’intervista al New York Times in cui Trump ha dichiarato che non avrebbe mai nominato Sessions se avesse saputo che si sarebbe chiamato fuori dall’inchiesta russa. Nel frattempo lo ha anche definito il procuratore “belaguered”, sotto tiro, cosa che da molti è stata presa come un velato invito a lasciare il posto.

Diversi nomi sono stati fatti per la successione. Rudy Giuliani è stato il primo, ma ha subito smentito l’ipotesi, spiegando che Sessions ha fatto bene a ricusarsi, e nella sua posizione avrebbe fatto la stessa cosa. Ted Cruz ha fermato sul nascere le speculazioni intorno alla sua nomina con un comunicato definitivo. In privato i rapporti fra i due sono pressoché inesistenti. Raccontano che da giorni Sessions chieda ai consiglieri più stretti del presidente suggerimenti su come rammendare lo sfilacciato rapporto, senza ricevere risposte soddisfacenti, e gli stessi funzionari vengono interrogati da Trump sulle potenziali conseguenze del licenziamento di Sessions. Fare ipotesi ad alta voce su rimpasti e sostituzioni è parte del suo modus operandi, non significa necessariamente che prenderà iniziativa. Lo fa per tenere alta la tensione all’interno dello staff e per trasmettere il concetto che la devozione a lui dev’essere totale e senza ombre. Chi viola il sacro patto della fedeltà presidenziale diventa immediatamente sostituibile, e questo vale anche per il suo più importante alleato politico. La ricusazione di Sessions è il casus belli noto, ma altri sostengono che il vero motivo del litigio sia un altro, anche più grave. Neera Tanden, presidente del democratico Center for American Progress, lo sintetizza così: “Se dovessi tirare a indovinare: Trump ha chiesto a Sessions di licenziare Mueller, e lui non lo ha fatto. E questo è il motivo per cui Trump è arrabbiato e Sessions resiste”. L’ipotesi che abbia chiesto il licenziamento del procuratore speciale che indaga sulla collusione russa non è facile da provare, anche perché Sessions si è appunto chiamato fuori dal caso in questione, ma è probabile che il lavoro rapido e alacre del team di Mueller abbia fatto improvvisamente realizzare a Trump l’enorme portata della decisione presa da Sessions a marzo.

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