Viktor Orbán (foto LaPresse)

Orban manda una lettera agli ungheresi: "Fermiamo Bruxelles"

David Carretta

Juncker e la Commissione Ue, che dibatterà oggi della situazione a Budapest, sono davanti a un dilemma

Bruxelles. L’Unione europea cammina su un filo sottile, nel momento in cui la Commissione di Jean-Claude Juncker discute per la prima volta della deriva illiberale dell’Ungheria di Viktor Orbán. Le iniziative del primo ministro di Budapest sono sempre più intollerabili agli occhi dei responsabili europei. La commissaria alla Giustizia, Vera Jourova, lunedì ha pubblicamente definito l’Ungheria e la Polonia “regimi non liberali”, invitando i cittadini dei due paesi a scendere in strada per dar voce al loro scontento. La scorsa settimana il commissario responsabile della Ricerca, Carlos Moades, si è detto “profondamente preoccupato” della legge che mette in discussione l’esistenza della Central European University fondata da George Soros perché è in contraddizione con “la libertà di ricerca scientifica e i nostri valori comuni di apertura”. Il mondo delle ong è in ebollizione a causa di un progetto di legge che, come nella Russia di Vladimir Putin, costringerebbe le organizzazioni che ricevono fondi dall’estero a dichiararlo pubblicamente, compreso l’ammontare. Ma l’offensiva di Orbán contro l’Unione europea e contro i valori liberali occidentali va molto oltre. Il suo governo ha lanciato la campagna “Let us stop Brussels” (Permetteteci di fermare Bruxelles) inviando a tutte le famiglie un questionario di sei domande per ottenere il mandato di avviare un braccio di ferro con l’Unione europea su economia, fisco, migranti e ong. Nella lettera che accompagna le sei domande, il premier Orbán chiede al “popolo di Ungheria di schierarsi a favore dell’indipendenza nazionale”. Budapest e altre città sono tappezzate di manifesti. Il messaggio implicito è che Bruxelles è come Mosca ai tempi del dominio sovietico. Per l’Unione europea è l’Ungheria a trasformarsi in un regime putiniano. Ma Juncker e la sua Commissione, che dibatterà oggi della situazione ungherese, si trovano di fronte a un dilemma: avviare le procedure previste dall’articolo 7 del Trattato nei casi di violazione dello stato di diritto e dei principi democratici potrebbe spingere il primo ministro a incamminarsi verso la porta d’uscita dall’Ue; non fare nulla significherebbe incoraggiare Orbán e i suoi emuli a mettere in discussione l’Ue fin nelle sue fondamenta.

Il parallelo che in molti evocano a Bruxelles è quello di David Cameron e dell’uscita dei Tory dal Partito popolare europeo, che aveva anticipato l’uscita del Regno Unito dall’Ue. Sempre più insofferente nei confronti di Orbán, il Ppe vuole evitare di espellerlo dalla propria famiglia politica per tentare al contrario di tenerlo sotto controllo. “La situazione diventa sempre più insostenibile”, ammette parlando con il Foglio un deputato del Ppe, che vuole conservare l’anonimato. Ma “se cacciamo Orbán diventerà molto peggio. Basta guardare alla lezione dei Tory e di come è andata a finire”, aggiunge il deputato. Gli ottimisti sono convinti che la cancelliera tedesca, Angela Merkel, sia ancora in grado di rimettere in riga il premier di Budapest quando esagera. “Quando Merkel gli ha intimato di non menzionare più la pena di morte, Orbán ha obbedito”, dice il deputato del Ppe. Esistono poi sensibilità locali, come i cristiano-sociali della Csu bavarese, che vedono in Orbán e nell’Ungheria alleati da difendere per ragioni storiche, religiose e geografiche. Soprattutto, il premier ungherese può contare su un alleato di peso, la Polonia nelle mani del partito Legge e Giustizia di Lech Kaczynski, che di fatto è in grado di bloccare le iniziative sull’articolo 7 del Trattato.

 

Il ruolo di Timmermans – Dentro la Commissione è il vicepresidente Frans Timmermans ad avere in mano il dossier dei regimi illeberali. I suoi tentativi di dialogare formalmente con la Polonia sulla base dell’articolo 87 del trattato finora non hanno dato frutti. La procedura era stata lanciata dopo che il governo di Varsavia aveva messo mano alla composizione e al funzionamento della Corte costituzionale. Ma l’olandese Timmermans non ha mai voluto portare la questione alla fase successiva – attivare il sistema sanzionatorio per violazione grave e persistente – per il timore di un veto da parte dell’Ungheria o di altri paesi del gruppo di Visegrad, con cui la Polonia è alleata. Oggi vale la stessa cosa per Orbán. “E’ molto difficile schiacciare il bottone dell’articolo 7”, riconosce un funzionario vicino a Timmermans: sia per la Polonia sia per l’Ungheria “potrebbe arrivare il momento”, ma per ora è meglio “continuare a mantenere una pressione informale”. Molti sono convinti che, nel medio periodo, saranno i soldi a far indietreggiare Orbán e Kaczynski. La commissaria Jourova ha proposto di condizionare la concessione dei fondi strutturali al rispetto dello stato di diritto, anche se non se ne parlerà prima del 2020. Un ambasciatore prevede che alla fine sarà l’economia a far tornare Polonia e Ungheria alla ragione. “Se non c’è stato di diritto e i tribunali prendono decisioni politiche, gli investimenti fuggiranno. In Polonia lo vediamo già”, dice al Foglio l’ambasciatore.

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