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Il Foglio sportivo

Il calcio non è solo gesto tecnico e analisi tattica. Parla Tim Parks

Fulvio Paglialunga

Il pallone è appartenenza, fateci tornare in curva. Né per il gioco né per il risultato, il senso di tifare una squadra è esserci. Elogio del delirio della folla

C’è un inglese che sa raccontare gli italiani senza studiarli, avendo scelto una strada teoricamente più semplice e in realtà molto poco battuta: li vive. Tim Parks, giornalista, scrittore, docente, è nel nostro paese da quarant’anni e ne conosce i dettagli a volte meglio di chi c’è nato. Attraversa mondi che fanno parte della nostra vita e li narra. Nell’ultimo libro “Italian Life” (appena uscito per Rizzoli) sceglie di inquadrare l’Italia con una sorta di fiaba moderna che affronta il mondo universitario, le sue ombre e anche le luci e scatta una nuova Polaroid di quello che siamo, in cosa siamo immersi. Prima, come sempre, si è immerso lui. Lo fece anche vent’anni fa, quando scrisse un libro culto per gli appassionati di calcio (“Questa pazza fede”) dopo aver vissuto un’intera stagione nella curva dell’Hellas Verona. L’Italia raccontata attraverso il calcio, era scritto. Un mondo che già gli apparteneva, da appassionato e da nativo di Manchester, posto in cui non scappi dal tuo destino. Solo che vivendolo con i più scalmanati di una tifoseria italiana nemmeno ben vista, riuscì a toccare i punti più profondi di cosa il calcio rappresenta per chi lo vive. Se lo vive da italiano, ancor di più.

 

Come va con il calcio, vent’anni dopo l’immersione totale in quello italiano?

Il mio rapporto con il calcio è cambiato. Ho lasciato Verona dieci anni fa e non vado più regolarmente allo stadio, anche se in questo periodo non ci va nessuno. Ero molto legato al Bentegodi, ma ora vivo a Milano.

 

 

E a Milano non è andato allo stadio?

Non molto spesso, e non è la stessa cosa. Mi conforta però sapere che il calcio è sempre lì. Quando ti serve, puoi tornare da lui: nei momenti di grande intensità, quando vuoi stare bene con tuo figlio, quando hai problemi personali.

 

Sta dicendo che il calcio è il nostro psicologo?
No, perché non cerca di risolvere i nostri problemi. È però il bastone a cui possiamo poggiarci. Ci siamo resi tutti conto di quanto era diventato vuoto il mondo quando hanno fermato il calcio. È stato un periodo interessante, abbiamo capito che mancava ciò che scandisce il nostro tempo anche quando non segui più con attenzione le partite, come me di recente. È il sottofondo della nostra vita.

 

Le è mancato così tanto?
Sono rimasto colpito anche io da quanto peso avesse quest’assenza. È stato interessante capire come i nostri leader, così incapaci come sono, hanno comunque capito che bisognava far ripartire il calcio. Non hanno risolto con i vaccini, ma hanno almeno capito che il calcio serve, come al credente serve la funzione religiosa. Io mi incazzavo tantissimo nel periodo tra Natale e Capodanno perché in Italia non si gioca, e sono le giornate lunghissime e vuote in cui ne avresti bisogno.

 

Parliamo del Verona. Chi non ha letto “Questa pazza fede” non sa che lei, di Manchester, è uno sfegatato dell’Hellas...
Queste cose non si scelgono, accadono. Sono nato a Manchester, da piccolo mi portavano all’Old Trafford e ho iniziato a tifare United; mi sono trasferito a Londra e guardavo tutte le partite che la mia squadra giocava lì. Poi nel 1981 mi sono trasferito per lavoro a Verona e ho cominciato a frequentare lo stadio. È nato mio figlio, abbiamo persino pensato di chiamarlo Michele Scaligero. 

 

E poi?
Abbiamo scelto solo Michele.

 

Chi l’ha convinta a non spingersi fino a chiamare suo figlio Scaligero?
Il buon senso. Ho avuto il buon senso di non farlo.

 

Torniamo al Verona.
Allo stadio mi sentivo a casa; Verona è una città bellissima, ma un po’ conservatrice, dove sei il benvenuto ma resti un ospite. Invece allo stadio non era così, stavo più comodo lì che in città. La gente era la stessa, ma allo stadio vivono il loro carnevale, sono talebani del fine settimana.

 

Ora che vive a Milano potrebbe tifare per una milanese, per gli stessi motivi...
In Italia non potrei tradire il Verona. San Siro l’ho visto per la prima volta con le Brigate Gialloblù contro il Milan e siamo stati insultati in ogni modo. Ricordo: stavamo andando nel punto altissimo dello stadio dove ci avevano sistemato e il capo della curva mi disse “Tim, questa sarà una delle esperienze più belle della tua vita, perché appena usciranno i nostri sentirai un boato di insulti”. Aveva ragione.

 

Se le mancano anche gli insulti allora non ho nulla da obiettare...
Nella curva del Verona avevo il contatto umano con una città in cui ero straniero. Stringevo amicizie fortissime, anche se ci vedevamo solo la domenica. Tutte le domeniche. Perché quando vai solo alle partite in casa hai due settimane per svuotarti, ma io andavo anche in trasferta, e quando sei in uno stadio ogni settimana il calcio finisce per occuparti la vita in modo pazzesco. Una cosa bellissima o spaventosa. Facevo con gli altri anche viaggi di dodici ore e finivo per conoscere tutti bene, lì vedi come il calcio si innesta in vite diverse.

 

Proviamo a decidere se è bellissima o spaventosa. Identificarsi in una squadra è una gioia o una condanna?
Chi vive al seguito di una squadra è felice di esserci. Non è vincere l’obiettivo. È gioia. Ma anche condanna, perché forse la verità è che è un po’ un disastro quando leghi la tua vita a una squadra di calcio, soprattutto se è come l’Hellas.

 

Lo sta dicendo a uno che tifa per il Taranto...
Davvero? La città di mia moglie. Suo fratello è un abbonato. Tifare Taranto, lo riconosco, è ancora diverso, perché a Verona c’è sempre un barlume di speranza di tornare su. Non so cosa possa voler dire tifare per una squadra che non ha, ancora, nemmeno quella speranza.

 

Non infierisca. Torniamo al valore di vivere al seguito di una squadra.
Ho visto i più esperti della curva e ho imparato come si stacca l’emotività dal risultato. Una volta, sotto Natale, stava giocando a Firenze e avevamo un disperato bisogno di punti. Segnò la Fiorentina, poi ancora. A quel punto i nostri iniziarono a seguire una partita diversa, applaudendo quando non succedeva nulla. Un atto psicologico collettivo di distacco, tutti insieme ci stavamo rifiutando di stare male per quell’orrenda partita. Ma questo umorismo di gruppo è anche di grande educazione per una persona giovane.

 

Lo vede che il calcio è il nostro psicologo?
Ma non il calcio in sé, quanto quello che accade allo stadio, perché come ogni esperienza intensa aiuta a crescere. A Napoli, durante la partita, sentivamo la retrocessione vicina e c’era chi diceva “ma in B vedremo stadi nuovi”. Capisce che così non esiste la sconfitta?

 

Dice?
Se mi trovo a vedere un film che non mi piace vado via dal cinema. Avrò sprecato i miei soldi, ma non mi interessa guardare una cosa brutta. Allo stadio, invece, resto anche se la mia squadra è sotto 4-0 perché è la mia squadra. Pensi, un po’ mi vergogno che il Manchester United sia diventato un prodotto globale. Per anni ho sentito l’imbarazzo di dover spiegare che tifavo per lo United perché ero nato lì, perché mi avevano portato allo stadio da piccolo, che non ero stato attratto dal marketing, mentre si aggiungevano tifosi da tutto il mondo. Quasi quasi non aver vinto niente negli ultimi anni non mi dispiace: ci toglie un po’ di persone arrivate per caso. Se guardi il calcio per il bel gioco ci sta che ti stufi e forse te lo meriti pure. L’estetica del calcio non è il calcio.

 

Vedo orde di esteti che corrono ad armarsi, adesso...
Tutto il mondo si sta spostando verso l’ossessione del risultato. Persone che cercano la vittoria per il proprio fine settimana, ma è un po’ triste, indica il vuoto che hanno intorno. Sono le distorsioni del calcio televisivo. Ma il calcio è una questione di appartenenza. È quella che rende lo stadio un luogo che unisce ragazzi scalmanati e tranquilli settantenni. Che non sono lì per il bel gioco. Altrimenti si va a vedere il balletto.

 

E se ora arrivano i ballerini a lamentarsi?
Dico sul serio, è molto bello. 

 

Il calcio invece no, non è bello? 
Nel calcio conta la tua squadra, conta che ci sia. Ecco perché facevo la differenza con il pallone in televisione, basato sulla semantica della vittoria o della sconfitta. Se guardi la tua squadra in tv vale solo il risultato, non ti resta niente. Avete mai portato un ragazzino allo stadio? Guarda la curva e si innamora di quella, non del bel gioco. Quando la sud del Bentegodi è in forma il bello è arrivare un’ora prima, vivere tutto, vedere tutto, salutare tutti. È una cosa bellissima. Se perdi, pace. Però ti resta quello che hai vissuto. 

 

Vogliamo parlare della trasferta di Bari con cui inizia la sua stagione epica al seguito del Verona? Da tempo quei viaggi sono più proibiti che possibili.
È una questione generalizzata: è tutto diventato così complesso che ho perso la volontà. Non erano provvedimenti necessari per risolvere il problema della violenza, era solo propaganda politica per dire “noi stiamo facendo qualcosa”, ma senza alcun senso. 

 

Però non vorrei che come titolo ci fosse “non è più il calcio di una volta”, perché altrimenti banalizziamo ogni riflessione. Cosa c’è di bello ora?
Quello che era bello rimane bello. Uno stadio pieno, la gente, lo spirito laddove non è cambiato. Quando guardo le partite in streaming voglio vedere più la curva della partita. Il Var è invece una tristezza.

 

Non può dire nella stessa frase dire che segue le partite in streaming e che il Var è brutto. Il calcio moderno è tutto, streaming e Var. Quindi, bello o no?
Hanno fatto di tutto per renderlo meno bello, ma ancora non ci riescono.

 

Suo figlio segue ancora il Verona?

A un certo punto mi disse “basta, soffro troppo, perdiamo sempre”. Ora vive in Inghilterra ma continua a seguire le partite in streaming. Non so quanto soffra ancora. Però non ha smesso di tifare.

 

E siamo a due, con lo streaming. Non è che, semplicemente, il calcio segue il tempo che si vive? Che quando lei andava al Bentegodi per i settantenni di allora quello era il “calcio moderno”?

In effetti io non ho mai vissuto quel calcio che esisteva solo per chi andava allo stadio, senza televisione, al massimo con radio. Il mondo è alle prese con infinite trasformazioni e il calcio anche. Leopardi nella poesia “Un vincitore nel pallone” dice che senza un elemento di pericolo o di violenza è difficile che la nostra vita sia eccitante. Tutto, allora, sta nel contenere qualunque esperienza sul filo del pericolo, senza perdere il controllo. Anche quando ero nella curva del Verona stava nascendo qualcosa di nuovo, ma accadeva con compresenze di corpi. Ora ho paura che le trasformazioni siano vedere uno che mangia sushi a Tokyo, uno che si è appena svegliato in America e un altro da un’altra parte del mondo accendere la tv contemporaneamente per vedere Messi – non una squadra, Messi – mentre scrollano i messaggi sul telefono.

 

Succede già...

Ma spero resti sempre il delirio della folla, che il calcio non diventi solo la descrizione di un gesto tecnico, l’analisi approfondita di una tattica, perdendo la sua unicità. Non c’è un momento, anche con tutte le modernità che volete, che possa sostituire lo sbucare sugli spalti, vedere il prato verde, i giocatori che escono dal tunnel. Vogliamo paragonarlo con i Mondiali, quando ti fanno vedere un adolescente truccato con la bandiera dell’Uruguay? Non mi interessa minimamente una cosa del genere.

 

Diciamo che ora forse non avrebbe scritto un libro sul calcio.

Forse non lo avrei scritto se fossi arrivato altrove, in Italia, invece che a Verona. Verona aveva una schizofrenia tutta sua: una città bigotta e conservatrice e uno stadio sfrenato. C’era anche una narrazione che andava avanti per inerzia: quello che succedeva e confermava lo stereotipo della città faceva parlare, e Michele Santoro faceva le sue trasmissioni speciali. Al contrario no. C’erano elementi difficili in curva, ma era meglio averli allo stadio che per strada. L’errore di chi demonizza il calcio e vuole igienizzarlo è non capire la funzione sociale dello stadio. E poi c’era un presupposto fondamentale: amo tifare per le squadre che non sono destinate a vincere, che quando battono una big sembra che il destino abbia girato le spalle alla favorita e non che sia merito tuo. C’è un pathos nei tifosi delle squadre piccole che non è uguale con le grandi. 

 

Ne scriverà mai un altro?

Assolutamente no. Me ne fu chiesto subito un altro, anche l’anno scorso me lo hanno chiesto ancora. Ma sono cose che fai quando ti trovi dentro, e io ero molto dentro, mi è costato parecchio perché vivevo per il calcio. A stento avevo spazio per le mie lezioni all’università. No, non si può ripetere.

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