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Così Conte prova a sabotare le larghe intese col Cav.

Il premier teme per la tenuta dei grillini, e forse anche per il rimpasto. Ma il governo tentenna, senza il sostegno azzurro. Il Vietnam sulla legge di Bilancio e il ricatto leghista sui decreti "Sicurezza"

Valerio Valentini

Il dispaccio di Palazzo Chigi al Nazareno: "Occhio, che il M5s non regge se apriamo a Forza Italia". Ma Zingaretti insiste, e benedice un tavolo condiviso con gli azzurri per la legge di Bilancio. L'ira di Salvini e Meloni

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Il dispaccio, da Palazzo Chigi fino al Nazareno, è stato consegnato coi metodi ormai convenzionali, il solito Dario Franceschini nei panni dell’ambasciatore. E così poi Nicola Zingaretti lo ha diramato ai parlamentari a lui più vicini, ai capigruppo e un po’ a tutta la cerchia di fedelissimi che, come lui, è sempre più insofferente di fronte ai tentennamenti del governo. E il messaggio era chiaro: “Occhio, che Giuseppe Conte è contrario all’ipotesi delle larghe intese con Forza Italia”. E non che questo comporti, agli occhi del segretario o del suo vice Andrea Orlando, la necessità di frenare il dialogo con l’opposizione più moderata. Ma almeno consente di stracciare un velo di ipocrisia su una trattativa che procede a singhiozzo, con più sabotatori che pontieri.

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Il dispaccio, da Palazzo Chigi fino al Nazareno, è stato consegnato coi metodi ormai convenzionali, il solito Dario Franceschini nei panni dell’ambasciatore. E così poi Nicola Zingaretti lo ha diramato ai parlamentari a lui più vicini, ai capigruppo e un po’ a tutta la cerchia di fedelissimi che, come lui, è sempre più insofferente di fronte ai tentennamenti del governo. E il messaggio era chiaro: “Occhio, che Giuseppe Conte è contrario all’ipotesi delle larghe intese con Forza Italia”. E non che questo comporti, agli occhi del segretario o del suo vice Andrea Orlando, la necessità di frenare il dialogo con l’opposizione più moderata. Ma almeno consente di stracciare un velo di ipocrisia su una trattativa che procede a singhiozzo, con più sabotatori che pontieri.

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Perché, a volerla racchiudere in una scena, nel luogo che a siglare un accordo sarebbe deputato, e cioè Montecitorio, la situazione ancora ieri mattina era più o meno questa. Davide Crippa, capogruppo del M5s,  spiega che fosse per lui ci mancherebbe, ben venga la convergenza ampia sulla legge di Bilancio, ma la sua truppa non reggerebbe. Al Senato, per dire, c’è voluta non poca arte di persuasione per evitare che la protesta di Mattia Crucioli contro l’approvazione della “salva-Mediaset” (“Siamo al baratto!”) non sfociasse in un documento sottoscritto da sei o sette grillini intransigenti, quanti ne basterebbero per sbriciolare la maggioranza rossogialla. Al che interveniva Mariastella Gelmini, a dire che Forza Italia non può che seguire la via della collaborazione indicata dal Cav., ma bisogna tener conto degli umori di tutti, pure della componente più filoleghista del suo partito, nonché delle reazioni scomposte di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che non a caso proprio ieri mattina depositavano alla Camera una pregiudiziale d’incostituzionalità sul decreto “Covid”, quello che contiene l’emendamento che stoppa l’assalto di Vivendi sul Biscione, vergando un documento che costituisce uno sfregio nei confronti della famiglia Berlusconi.

 

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E insomma quando Maria Elena Boschi, che pure non ha alcuna preclusione verso FI, osservava però che sarebbe bene fare chiarezza su chi è in maggioranza e chi no, “perché un’agenda di governo non la si può pensare sulla base di voti potenziali”, appariva quasi saccente nel suo puntiglio di buon senso. Al che toccava a Graziano Delrio, sempre più critico verso l’inconcludenza dell’esecutivo, spiegare che è difficile fare un’operazione di convergenza, se i primi a non volerla stanno a Palazzo Chigi. E forse il riferimento era anche rivolto al ministro Federico D’Incà, che da pretoriano del contismo sovrintende alle manovre parlamentari, e che pur dissimulando niente male  fa però una cera fatica a non lasciar trapelare uno scetticismo che lui stesso condivide col premier.

 

Perché garantire la tenuta del M5s su un accordo col Cav. è assai rischioso, se perfino una risoluzione in commissione Trasporti  non si riesce a condividere, nonostante la disponibilità di FI, perché alla richiesta degli azzurri di citare esplicitamente il ponte sullo Stretto i grillini reagiscono strappandosi i capelli. E così tutto s’impantana: quella sorta di bicamerale allargata ai capigruppo auspicata dallo stesso Sergio Mattarella continua a essere rimandata, coi presidenti Fico e Casellati che, prima di esporsi, attendono una copertura politica dai vari leader, onde evitare che a rimetterci la faccia siano loro.

 

E perfino l’idea di concedere a FI un relatore di maggioranza sulla legge di Bilancio diventa un azzardo, “perché poi bisognerebbe anche votare la fiducia insieme”, nelle stesse settimane in cui la Camera discute la riforma dei decreti “Sicurezza”, che arriva in Aula lunedì, per cui “verremmo accusati da Salvini – dicono gli azzurri – di collaborare con chi smantella le sue leggi e riapre i porti”. E allora meglio lavorare, come hanno deciso Gelmini e Delrio, con la benedizione del dem Orlando, a un tavolo per condividere alcune norme da inserire congiuntamente nella manovra. Senza che questo, almeno per ora, comporti alcun impegno per nessuno. “Perché in fondo Conte e il Cav., ammiccandosi a vicenda senza mai baciarsi, ottengono ciò di cui più hanno bisogno: il tempo. Al Cav. serve per logorare Salvini e Meloni, e a Conte, semplicemente, per restare a  Chigi ancora un po’”. Parola di Gianfranco Rotondi, che di queste tattiche se ne intende.
 

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