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Reform Party

Fabio Massa

Basta diaspore, le siglette del riformismo ambrosiano unite per Sala. Wait and see

“Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme”. Ironia della sorte, la citazione di Enrico Berlinguer funziona alla perfezione per i riformisti milanesi (variamente lib-lab o ex-post) alla ricerca di un soggetto unitario. Che finalmente, a Milano, dopo lunghi anni di una diaspora spesso volontaria il soggetto unitario lo hanno trovato. Presentato nei giorni scorsi, ci sono Azione, Italia Viva, +Europa, Base e Civici. Una lista unitaria da schierare a fianco di Beppe Sala, anziché le tre, quattro sigle senza chance e probabilmente senza quorum. Idea seria, a cui prestare attenzione. Che va nel solco di quel riformismo “ambrosiano” pragmatico, anti ideologico, che è da sempre una parte del Dna milanese, come sa Sergio Scalpelli, uno degli animatori della non facile impresa. Dunque, bravi tutti a convincere Carlo Calenda e gli azionisti di Milano che andare soli, spaccando il fronte riformista, sarebbe stata una operazione autolesionista. Certo, il sindaco di Milano Beppe Sala (che ovviamente benedice) non se ne sarebbe poi troppo dispiaciuto, a dirla tutta. In fondo, in assenza di Gabriele Albertini quei voti comunque là finiranno, al Beppe, con o senza contenitore riformista, tradizionalmente pieno di buone idee ma non di voti determinanti. Quindi raggrupparsi per fermare il declino, tanto per citare. Ma allo stesso tempo una scelta coerente, e un segnale generale: perché tenere divise e irrilevanti visioni e aree politiche che la pensano allo steso modo? L’ora di provarci non è mai troppo tardi.

 

Eppure, non può sfuggire ai più disincantati che la situazione non è in discesa. Basta vedere uno qualunque dei tanti sondaggi che sono stati fatti in queste settimane: il Pd si attesta intorno al 28 per cento. Italia Viva 1,5, Azione poco più, +Europa intorno al 2. Se andrà tutto bene, a Milano sarà un 8 per cento: roba da sognare e accendere ceri, ma lontana dalla doppia cifra. Sugli altri fronti, l’ambientalismo è balcanizzato: tra Verdi Italiani (2 per cento circa), Verdi Europei (non stimati) e lista Sala che dei Verdi ha imbarcato l’esponente più conosciuto (Enrico Fedrighini), difficile che arrivino singolarmente a qualcosa più del 2 per cento. I riformisti divisi avrebbero performato più o meno nella stessa maniera, e magari peggio. Uniti, andranno meglio. Però il problema persiste. Perché nel prossimo Consiglio comunale, se vincerà Beppe Sala, ci sarà un Pd più che egemone, a sua volta sottomesso a un candidato che da solo dovrebbe spostare pesantemente l’ago della vittoria.

 

Basti guardare i soliti sondaggi (di Sala, non di destra): la maggioranza dei milanesi, se non si considerano le candidature, è leggermente per il centrodestra. Segno che i due blocchi si equivalgono, e che quindi gli elettori sceglieranno non solo in base ai parametri di partito. La verità è dura: Beppe Sala la volta scorsa venne portato alla vittoria sulle spalle dal Pd Milano, questa volta invece è il sindaco uscente che si carica sulle spalle tutto il peso. E se vincerà, deciderà da solo, o al massimo concordando con il Pd. E’ la matematica della politica: con l’8 per cento e una pattuglia di 6 o 7 consiglieri, i riformisti non saranno l’ago della bilancia. Però lo zen e l’arte della politica insegnano ad essere ottimisti. Ottimisti perché per una volta ha vinto la concretezza di Gianfranco Librandi, unico vero trait d’union tra azionisti, civici, e renziani. Secondo i dem più avvertiti, la sfida sarà di riportare a votare i propri elettori, di mobilitare gli affezionati. La regola è aurea, e vale anche a Milano, anche se probabilmente non basterà. La campagna di settembre sarà brevissima, incendiata dagli ultimi mesi (scommettono sotto la Madonnina) del governo Draghi in attesa di ascesa quirinalizia, con un centrodestra che dovrebbe aver trovato il suo assetto e un centrosinistra che dovrebbe finalmente aver definito la sua posizione rispetto al M5s. A Milano non si gioca solo la partita di Sala, e non si gioca solo la partita del Pd. Si gioca la partita di una scommessa riformista che a Milano non sarà probabilmente decisiva, ma che potrebbe invece inviare un segnale in direzione Roma. Con scritto, come nelle poesie di Montale: “Più in là”.
 

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