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L'epistolario

Le cerimonie dell’addio. Un libro raccoglie cento lettere

Gaia Manzini

Da Diderot a Emily Dickinson, da Sibilla Aleramo a Kafka, scrivere salva la vita quando l’amore si spezza. La raccolta diu Cristina Marconi ha dentro le fotografie delle separazioni

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Novanta edizioni. Il sogno di qualsiasi scrittore, la garanzia di una fama imperitura. Non si tratta di un romanzo, ma di una raccolta di lettere: le Lettres portugaises, pubblicate per la prima volta a Parigi nel 1669 dall’editore Claude Barbin. Queste lettere sono state ripubblicate fino al 1800 e hanno influenzato le Lettere persiane di Montesquieu, ma nessuno sa davvero chi le abbia scritte. E’ uno dei più fitti misteri nella storia dell’editoria. Qualcuno le ha ritenute opera dell’influente diplomatico Gabriel-Joseph de Guilleragues, ma la tesi più affascinante è che le abbia scritte Mariana Alcoforado, monaca che visse tutta la sua vita nel convento della Nostra Signora della Concezione a Beja, nel Basso Alentejo, al confine con l’Andalusia.


Si era innamorata, Mariana. Si era innamorata di un ufficiale francese, un certo Noël Bouton, conte di Chamilly, di stanza in Portogallo. E allora Mariana gli scrive: scrive tanto e scrivendo rompe il silenzio nel quale è stata costretta a vivere. Non si può che immaginare un ciuffo di capelli sfuggirle dal velo – come sfuggiva a Marianna de Leyva, la Monaca di Monza dei Promessi sposi. Mariana scrive in modo appassionato, ha uno stile audace, impensabile per una religiosa; una voce incisiva e lirica che tanto affascinò Rilke. Le lettere sono cinque, l’ultima è una lettera di addio che inizia da una restituzione. Mariana, consapevole del suo amore non corrisposto, fa restituire al suo amante i regali con cui lui l’aveva omaggiata: un ritratto e dei braccialetti. E’ bellissimo questo dettaglio. E’ come quando un innamorato regala una sua foto all’amata, quasi a dire: eccomi sono io, non ti dimenticare di me. E, ancora, i braccialetti: il più delicato ornamento femminile – meno impegnativo di un anello, meno impositivo di una collana. L’ornamento per una femminilità rivelata solo all’amante. I braccialetti che una religiosa non potrà mai indossare, se non nei loro incontri segreti. 


Le lettere di addio nascondono spesso il tentativo di provocare una reazione, di toccare il tasto che riaccenda l’amore nell’amante perduto. Anche in questo caso, si tratta di un addio di una donna ancora innamorata, una donna che con consapevolezza moderna si dice religiosa e, per paradosso, proprio per questo più adatta all’amore. La vita di una monaca con il suo silenzio, i suoi pochi impegni, le poche tentazioni del mondo la rendono un’amante fedele: qualcuno che può pensare incessantemente alla propria passione. La propria passione è l’unica cosa che la tiene legata alla realtà e alla vita: è come una finestra che si apre sul mondo. (Tra l’altro, proprio da una finestra Gertrude aveva visto la prima volta l’amante e da quel momento non aveva pensato ad altro, dice Manzoni).

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Quando si dice addio si opera una cancellazione, si vorrebbe che ogni inganno, ogni gesto di generosità, ogni dettaglio che possa infervorare la memoria scompaia per sempre. Si vorrebbe che quanto c’è stato non fosse mai accaduto. E così ci immaginiamo questa donna che nella segretezza della sua cella prende i braccialetti che hanno tintinnato al suo braccio per riporli silenziosi in un fazzoletto, insieme al piccolo ritratto. Li consegna alla sua cameriera e li spedisce a chi glieli ha donati. Sarebbe bene che la memoria tacesse per un po’. A mai più, ogni cosa è persa per sempre.

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In Come dirti addio la scrittrice Cristina Marconi, ha raccolto, per Neri Pozza editore, cento lettere di addio attraverso i secoli: fotografie di quegli inevitabili momenti di separazione che caratterizzano le vicende di tutti noi, nei diversi momenti della vita e della storia. 
La lettera d’addio come esatto contrario della lettera d’amore. Con una peculiarità in più: chi scrive un addio non può accontentarsi della frase fatta, non è sedotto dalla retorica come chi scrive una dichiarazione d’amore; quando si scrive una lettera d’addio – come dimostrano queste lettere che, a tratti, suonano come monologhi o soliloqui – si scrive prima di tutto per se stessi. 


Un amico di vecchia data, durante una lunga passeggiata, mi ha fatto notare che i giovani non si scrivono più gli addii. Scompaiono, e basta. Fanno ghosting, come si dice in gergo: dissolversi nel nulla è un modo per non essere protagonisti della propria decisione; per mantenere tutto nella sfumatura, nella vaghezza, nelle ipotesi. Scomparire senza spiegazione, gettando nello sconforto l’ex amante e sé stessi in egual modo. La parola costruisce la realtà, le dà forma. E senza forma è difficile vivere: per guardare al futuro, per aprirci a qualcosa di nuovo è necessario chiudere alcune fasi della nostra vita. Senza le parole esatte il tempo della nostra esistenza rimane monocorde, privo di ritmo. Chi è a corto di parole – e di coraggio – potrà ritrovare esempi preziosi delle une e dell’altro tra le pagine di questo affascinante libro. “Le lettere d’addio sono spesso testi più sinceri nei contenuti e ancora più intense da un punto di vista stilistico: nel momento della caduta, lo sforzo d’eloquenza è massimo, la ricerca di un senso cruciale”, scrive Marconi nella prefazione. 

Nelle lettere d’amore ci si inganna: si inganna perfino l’illuminista Diderot. E’ innamorato di Sophie Volland, filosofa. La loro è una relazione più intellettuale che fisica. Diderot non si capacita che lei non gli scriva. E’ impossibile. Nella sua lettera di addio accampa le ipotesi più implausibili, tanto più implausibili perché formulate da un padre dei Lumi. Forse il domestico lo ha ingannato e non è andato a Charenton a ritirare la posta, forse il direttore della posta ha rifiutato di consegnare le sue lettere, forse sono andate perdute? L’essere dimenticati ci fa cadere nel baratro dell’inesistenza: succede a chiunque. Le illusioni ci fanno risalire, ci concedono contorni più definiti e ci danno l’impressione di salvarci, ma colonizzano i pensieri: tutti i pensieri, tutto il nostro tempo. 
Anche qui l’addio è una restituzione, ma differente. Con l’addio si chiede a chi ci rifiuta di restituirci a noi stessi.


“Questo davvero è umiliante: essere incapaci di controllare i propri pensieri, essere schiavi di un rimpianto, di un ricordo, schiavi di un’idea fissa e ossessiva, che tiranneggia lo spirito. Perché non posso avere per voi la stessa amicizia che avete voi per me, né più né meno? Sarei così tranquilla allora, così libera”. Charlotte Brontë, innamorata del suo insegnante Constantin Héger, si rende conto, esattamente come Diderot, di qualcosa di fondamentale: l’amore non corrisposto è attesa, tempo sospeso, fiato trattenuto. Una parentesi temporale piena di ossessioni che tolgono la pace. Dunque la possibilità di lavorare e creare. Quando lo spirito di sopravvivenza e il rispetto per il proprio lavoro è preciso, l’addio è più netto, meno recriminatorio. Ma forse è il lavoro stesso la causa di una separazione. Quattro mesi prima del suo compleanno, Emily Dickinson incontrò una donna capace di gettare un incantesimo su di lei e suo fratello. Susan divenne sua cognata, la sua migliore amica, la sua editor, la sua musa e molto probabilmente il suo grande amore. Tra di loro la conoscenza arrivava attraverso uno sguardo condiviso sul mondo. Marconi però ha trovato una lettera che preannuncia una separazione – seppur momentanea. “Ultimamente siamo state in disaccordo, e questa dev’essere l’ultima.” Possiamo solo supporre una diatriba, un intervento editoriale su alcune parole. E’ il lavoro a dividerle, forse il narcisismo autoriale. 

Quando ci separiamo da qualcuno, sia che desideriamo il distacco sia che lo subiamo, siamo costretti a immaginare una distanza. Nella distanza emerge quello che non vedevamo, emerge l’umanità in tutte le sue sfumature e declinazioni. C’è la crudeltà di Christina Rossetti: “Non ti ho mai detto di amarti, John: / perché mi tormenti, giorno dopo giorno, / e alimenti una stanchezza che dà da pensare / con i tuoi continui fai e ti prego?”. C’è la compassione di Sibilla Aleramo verso Dino Campana. Si erano incontrati il 3 agosto del 1916; lei aveva quarant’anni, ed era già famosa, mentre lui ne aveva nove di meno e i suoi Canti orfici non avevano avuto il successo prefigurato. Lui era malato da molti anni: la schizofrenia lo aveva costretto a lunghi ricoveri fin dall’adolescenza. Il loro è stato un amore vertiginoso, violento, difficile da sostenere, soprattutto per una psiche provata come quella di Campana. Allora lei il 25 aprile del 1917 gli scrive di amarlo ancora, di sentirsi ancora così sua, ma nonostante questo è necessario un addio. Davanti a sé non vede che primavere deserte. Ognuno di loro due deve prendere la propria strada. L’addio di Sibilla a Dino è un augurio: che lui possa ritrovare la poesia nella sua anima. 
C’è poi la doppiezza di Kafka: è lui stesso ad ammetterlo nella lettera che manda a Felice Bauer nell’ottobre 1917. Sì, ci sono due individui dentro di lui, perché la menzogna è necessaria alla sua vita, all’equilibrio che anela sempre di trovare. Le bugie sono una compensazione, una forma di malattia, qualcosa che lo condanna a essere dimidiato tra due opposti che si danno il cambio sulla scena. Non guarirà mai, è bene che lei lo sappia. Sì: perché chi ama ha sempre bisogno di sapere la verità, come se la verità esistesse per davvero. L’amante abbandonato ha bisogno di sapere di non essere stato ingannato e di non essersi illuso. L’amore è purezza, non ammettiamo che sia inquinato da nulla. Eppure tutti noi sappiamo benissimo che spesso ci si convince di amare non per crudeltà, ma perché amare è bellissimo; anche fingere di amare è bellissimo, è una prova attoriale che tira fuori il meglio di noi. Lo si fa sempre con le migliori intenzioni, con il recondito desiderio di innescare una metamorfosi che ci trasformi in creature straordinarie. 

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La lettera di addio, invece, è sempre il momento del disvelamento, la necessità di toccare il terreno, di prendere le misure del mondo con mano ferma. Chissà perché. Forse solo perché la vita per continuare ha bisogno di solidità, di una base sicura.

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Ci sono gli addii reiterati di Simone de Beauvoir a Nelson Algren. Ci sono le lacrime di Dylan Thomas per Caitlin. E poi tutte quelle lettere di addio che sono ancora delle dichiarazioni d’amore prima che giunga l’inevitabile. Dal momento che l’addio può essere quello alla vita, la vita biologica che non avrebbe avuto alcun senso se non fosse stata una vita accanto a qualcuno amato. 
Il 18 marzo del 1941, Virginia Woolf si avvia oltre il giardino della casa di campagna dove vive con Leonard Woolf. C’è la guerra, Londra è devastata dalle bombe e lei sa che la malattia mentale sta tornando: è tornata a sentire le voci, e le voci non la fanno concentrare. Non ha la forza di affrontare un altro di quei terribili momenti. Quella di Virginia è una lettera di gratitudine: non avrebbe mai potuto essere felice come lo è stata con Leonard. Proprio per questo non si sente di rovinare la vita a quel marito buono, fedele e complice. E così si avvia verso il fiume Ouse e se ne va per sempre. 


Leone Ginzburg, eroe della Resistenza catturato dai tedeschi e incarcerato a Regina Coeli, scrive a Natalia un’ultima lettera composta e pulsante d’amore, in cui proietta ogni preoccupazione sulla vita dell’amata. Non gli interessa di se stesso, ma solo che lei normalizzi la sua vita, che riprenda a lavorare e a essere utile agli altri. La creazione artistica può liberare dalle lacrime, l’attività sociale avvicina alle persone. E allora non c’è tempo da perdere. Scrive, Leone, quasi alla cieca, al buio senza poter rileggere, confortato solo dal ricordo della moglie. Non si perderanno mai: sembra l’augurio di un ritorno e invece è un addio. Sa che non sopravviverà alle torture, sa che non riabbraccerà i figli, ma nello stesso tempo lui e Natalia non potranno perdersi mai. E’ una vera promessa di amore eterno. 

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“Non ho mai dimenticato il tuo amore e la tua bellezza. Ma questo tu lo sai, non devo aggiungere altro. Fai buon viaggio amica mia, ci vediamo in fondo al viale”, scrive Leonard Cohen alla sua musa norvegese che stava per morire a chilometri di distanza. E poi c’è Frida Kahlo che si rivolge a Diego Rivera prima che le amputino una gamba in ospedale. Gli scrive per dirgli che lo ama, ma anche che lo lascia libero; e io vedo questa donna che si immagina frammentata nel corpo come lo è stata nello spirito, questa donna che si libera degli affetti per non soffrire troppo e mette in scena la metafora esatta di quello che è l’addio: un’amputazione. Una separazione fisica di qualcosa che era stato unito e ora deve essere reciso. Qualcosa che provocherà cicatrici e ferite, dunque necessita un medicamento prima che faccia infezione. 


Per chi si separa le medicine sono le parole, anche quelle dure, anche quelle taglienti. Le parole sono imprescindibili in quanto necessarie per dire all’altro – e a noi stessi – come abbiamo saputo amare. E dunque come abbiamo saputo essere vivi.

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