Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali oggi nel governo Gentiloni e pure ieri nel governo Renzi, dopo essere stato ministro per i Rapporti con il Parlamento nel governo Letta (foto LaPresse)

Franceschini, il convitato di pietra

Marianna Rizzini

Ministro e presenza anfibia (con consenso trasversale) dietro alle primarie Pd

A volte è meglio essere reggenti che re, e deve ben saperlo Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali e convitato di pietra delle primarie pd: re non è mai stato, ma reggente di fatto già fu. Reggente nel senso di uomo ponte e Caronte, segretario-traghettatore del Pd post Veltroni e pre Bersani, eletto da una tormentata assemblea nel febbraio del 2009, quando ancora era per lui lontano il futuro di ministro trasversalmente lodato per la riforma dei musei (con rivoluzione nelle Soprintendenze e nel metodo di reclutamento dei direttori, chiamati con bando anche dall’estero) e per l’attesa legge sul cinema: s’odono cinematografari far festa, in nome del tax credit, come nemmeno ai tempi del Walter Veltroni ministro della Cultura e come mai è stato ai tempi in cui era segretario del Pd Pier Luigi Bersani, a torto o a ragione considerato più addentro alle tematiche tecnico-industriali che a quelle cultural-mediatiche (e c’è chi ricorda preoccupati conciliaboli nelle trattorie del centro di Roma, con registi intenti a rimembrare i giorni in cui “almeno c’era l’orecchio del partito ad ascoltare”). E siccome la reggenza è anche un modo d’essere, modo d’essere anfibio che può portare silenziosi consensi dentro e fuori dal partito e dal governo, Franceschini può con serenità dire “ho portato a casa un miliardo per la cultura” (nel 2016, via stanziamento del Cipe) o “i visitatori dei musei statali sono passati dai 38 milioni del 2013 ai 45,5 milioni del 2016” (l’ha detto al nemico-amico Vittorio Sgarbi in un faccia a faccia su Sette, qualche settimana fa), e può con serenità contare sull’appoggio dei sindaci che guardano al rilancio del turismo (grazie ai musei rinnovati) e puntare al “numero chiuso” anti degrado nei siti più famosi, ma può anche starsene zitto mentre gli altri (Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano) si sfidano per la segreteria del Pd, ben sapendo che non soltanto attorno a quei nomi si gioca la partita.

 

Non è mai stato re, ma fu reggente e segretario-Caronte nel Pd. Seguito trasversalmente, e favorito dall'essere "anfibio"

All’ombra delle primarie, nel Pd si sa insomma che c’è già stata e ancora ci sarà una parallela “partita Franceschini”, uomo non ritenuto un purista della fedeltà politica senza se e senza ma. Tutte considerazioni non percepibili nelle parole di Renzi, Orlando ed Emiliano durante il confronto televisivo su SkyTg24, mercoledì scorso, ma presenti sottotraccia, ché da molto prima del confronto infuria, nel Pd, il conteggio-nomi e il “chi sta con chi” – e si è scoperto che, nel “chi sta con chi”, molti stanno già con l’assente dalla gara Franceschini. E, nel Pd come fuori dal Pd, fresco è il ricordo del 4 dicembre, giorno di ordalia referendaria per Matteo Renzi e di piccole, impercettibili mosse del ministro dei Beni culturali che, pur stando con Renzi, ufficiosamente aveva espresso dubbi sul metodo Renzi (la famosa “personalizzazione” sul Sì) e ufficiosamente sapeva che, dal lato renziano, non si era stati molto propensi, dopo il 4 dicembre, a spendersi per un Dario Franceschini premier-reggente, tanto che il ruolo era poi andato a Paolo Gentiloni. Motivo per cui oggi resta una certa diffidenza nelle truppe franceschiniane verso quelle renziane: e se poi noi portiamo voti e si ripete la situazione di dicembre?, è il dubbio che serpeggia nella corrente franceschiniana Area Dem, visto anche il ticket congressuale non franceschiniano di Renzi con Maurizio Martina, ministro delle Politiche agricole. E dunque, fermo restando l’accordo precongressuale con Renzi, l’area del ministro dei Beni culturali teme un eventuale plebiscito pro Renzi. Tuttavia il Franceschini ministro è come non fosse toccato dalle voci sul Franceschini uomo di partito: pochi sono i nemici della sua riforma (fatta eccezione per la triade-intellò da sempre contraria, composta da Tomaso Montanari, Salvatore Settis e Alberto Asor Rosa). Molti sono gli estimatori dei “museo autonomi”. Solido è il rapporto con il Quirinale di Sergio Mattarella e sicura è la base in Parlamento (non soltanto Area-Dem, ché gli smottamenti dal settore renziano ed ex Pci-Pds-Ds anche indirettamente favoriscono Franceschini, senza contare l’armonia che pare regnare tra il ministro e i capigruppo pd al Senato e alla Camera Luigi Zanda ed Ettore Rosato). Ambivalente è dunque la natura del rapporto Renzi-Franceschini, il ministro renziano al ministero ma non così renziano nel partito (si era speso per un allungamento dei tempi del congresso). E che fosse per vezzo o per convinzione, si è sentito spesso Franceschini, in tempi renziani, definirsi “ministro tecnico”, nonostante i suddetti fasti museali e cinematografici, e nonostante le sue scelte, anche con Gentiloni premier, siano state difese in modo molto politico, non ultima l’istituzione del Parco archeologico del Colosseo, contro la quale il sindaco di Roma a cinque stelle Virginia Raggi ha fatto ricorso al Tar e in difesa della quale Franceschini si è speso in prima persona, a partire da Twitter, in nome dell’“autonomia” del polo culturale romano e in linea con le altre riforme del Mibact. E c’è chi ricorda la frase detta nel febbraio 2009 dall’allora molto giovane Renzi ( vincitore delle primarie fiorentine), frase pronunciata proprio nel momento dell’investitura del Franceschini segretario postveltroniano: “Certo che se Veltroni se ne va e mettiamo il suo vice, allora non capisco perché se ne sia andato Veltroni”. Neanche Francesco Rutelli e Massimo Cacciari, allora, erano del tutto convinti dall’ipotesi Franceschini, poi eletto segretario-traghettatore lasciandosi alle spalle, lui ulivista, l’ulivista storico e altro candidato Arturo Parisi: un evento che pare oggi lontano, lontanissimo. Ma in quell’essere Caronte c’era già tutto un mondo passato e un mondo futuro, e tutto un modo d’essere anfibio: un po’ di terra (buoni rapporti con l’ex segretario e fondatore pd dimissionario Walter Veltroni, di cui Franceschini era stato vicesegretario) e un po’ di mare (non cattivi rapporti con l’ex premier Massimo D’Alema, di cui Franceschini era stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio). Fatto sta che ancora oggi il Franceschini-anfibio è passato indenne attraverso la sotterranea e non indolore guerra di posizione lunga tre governi (Letta, Renzi, Gentiloni): sono cambiati tre premier del Pd, ma Franceschini è sempre lì, con Nemesi alle porte: non è candidato alle primarie, eppure il suo nome ricorre.

 

Giovane diccì ferrarese, scrittore, marito della nemica di Virginia Raggi, non interventista nell'affare Mondazzoli

Ambivalente è stato, infatti, anche il ticket con l’ex premier Enrico Letta, prima inattaccabile poi friabile, specie nei giorni duri del febbraio 2014, quando Letta, a monte del passaggio di campanella con Renzi a Palazzo Chigi, camminava sull’orlo dell’abisso e della Direzione in cui i colleghi di partito avrebbero aperto la strada al governo dell’ex sindaco di Firenze. E, in quelle ore di misteriosi e sommersi passaggi di fronte, si vociferava anche di un “teso chiarimento” tra il Letta premier e il Franceschini ministro dei Rapporti con il Parlamento, con un Letta quasi quasi preso da “follia improvvisa” alla Ignazio Rando, protagonista dell’omonimo romanzo Bompiani di Franceschini (il ministro è anche scrittore, come l’ex mentore Walter Veltroni): e Letta, davanti a quello che considerava un voltafaccia, aveva per un attimo perso l’aplomb da professore europeista e si era concesso i classici cinque minuti di nervosismo, come l’impiegato Ignazio del romanzo che un bel giorno, dal nulla, smettendo di essere “uomo modello”, si era messo a camminare sui tavoli e a calpestare fogli e brogliacci.

 

E se tra Franceschini e Paolo Gentiloni premier pare regnare la concordia, negli anni di impegno politico comune presso la Margherita non sempre i due hanno viaggiato in perfetta sintonia (reciproca era la sbandierata stima, ma testimoni ricordano battute gentiloniane che suonavano più o meno così: “… basta che Dario non si occupi di politica…”). Fatto sta che oggi Dario, il ministro cresciuto a Ferrara con i capelli un po’ lunghi, il culto del grande fiume padano e il mito del leader democristiano Benigno Zaccagnini e della “collegialità interna di partito”, possiede una dote politica tra le più richieste in tempi di revival proporzionale, sebbene non più di Pentapartito: la capacità di tessitura sotterranea (e anche in questo c’è leggero ma persistente attrito tra franceschiniani e renziani: c’è chi prende voti e poi se li ritrova in pericolo e chi ne prende meno ma sa farli fruttare. Solo che mettersi d’accordo non sempre è possibile). Intanto però Franceschini ha dalla sua un dato non soltanto d’immagine: l’amicizia con alcuni pilastri della cultura, dello spettacolo e del giornalismo, da Roberto Benigni a Francesco De Gregori a Ezio Mauro, e il secondo matrimonio con la giovane Michela De Biase (la coppia, a un certo punto, è stata fotografata come si fotografano oggi i Macron in Francia). L’attuale consorte del ministro, infatti, ora trentaseienne, è romana almeno quanto il marito è ferrarese, spontanea nell’eloquio almeno quanto il marito è controllato, scenografica nello stile (nonché quasi sosia dell’attrice Micaela Ramazzotti) almeno quanto il ministro è non appariscente. E da capogruppo in Campidoglio è universalmente nota come “caterpillar anti Raggi”: dove Raggi parla, De Biase risponde (e critica), tanto che c’era chi, un anno fa, nel Pd locale, voleva candidarla sindaco al posto di Roberto Giachetti. Nelle redazioni delle riviste di gossip, invece, all’indomani del 4 dicembre, a vittoria del No appena consumata e prima che fosse chiaro che l’avvicendamento a Renzi non sarebbe stato un avvicendamento nel nome di Franceschini, già si sognava una De Biase first lady (oltreché madre di una bambina e nemica giurata di ogni mossa a cinque stelle).

 

La sua azione da ministro piace ai sindaci (riforma dei musei), ai cinematografari (tax credit) e agli intellò (più soldi dal Cipe)

Poi succede che la mattina del 27 aprile, sul Corriere della Sera, Marina Berlusconi, presidente Mondadori e figlia di Silvio, faccia una lunga intervista, parlando di utili (“è il terzo anno che cresciamo”) e di populismi (“il pericolo in Europa è l’antipolitica… libri e cultura sono l’argine alla Le Pen”), e proprio all’indomani del suddetto confronto televisivo in cui i tre candidati alle primarie del Pd, intervistati da Fabio Vitale per Skytg24, affrontano il tema del “nemico”: chi sarà il “nemico”, dovessimo andare verso le larghe intese? Silvio Berlusconi o i Cinque stelle? Ed è in quel frangente, proprio mentre il presidente della Repubblica esorta i partiti a non impaludarsi sulla nuova legge elettorale, e mentre Renzi apre ai Cinque stelle perché Berlusconi intenda, che torna sulla scena, in modo indiretto, il ministro Franceschini. Colui che sull’operazione cosiddetta “Mondazzoli”, Mondadori che acquisisce Rizzoli, si era mostrato in principio cauto, come ministro e forse anche come scrittore edito da Bompiani (casa editrice del gruppo Rizzoli passata a Mondadori e poi a Giunti). Correvano allora per il web i tweet d’allarme del ministro (“… è troppo rischioso che una sola azienda controlli metà del mercato”, scriveva Franceschini). Ma poi, a cose fatte, nel 2016, Franceschini era apparso distante da una linea del “no” alla Gustavo Zagrebelsky (contrario al “Partito della nazione come alla casa editrice della nazione”), e si era attestato su un laissez-faire temperato dal dubbio: “Ho già detto come la penso sui rischi di questa operazione sul delicato mercato dei libri. Ma ho anche ripetuto dal primo minuto che il governo non può e non deve intervenire. Sarà semmai l’Autorità antitrust a valutare secondo la legge, come sempre, e nella sua totale indipendenza, l’operazione acquisto Rcs”). Ed ecco che Franceschini, il ministro che piace trasversalmente e che sull’affare Mondadori non è stato interventista, diventa, nell’immaginario collettivo dei fautori della larga intesa a destra (e mai con i Cinque stelle) un possibile grimaldello capace di scardinare le resistenze berlusconiane. Anche se poi il suo nome non richiama suggestioni come quello di Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico che aveva fatto sognare coloro che, nel centrodestra, si erano messi in cerca di un possibile federatore esterno. Eppure Franceschini resta abbastanza trasversale da essere considerato “ponte”. Un ministro-ponte verso non si sa quale futuro proporzionale che, a un giorno dalle primarie, annuncia con Matteo Renzi la visita alla Reggia di Caserta, uno dei siti ex degradati e risanati in epoca Franceschini, per parlare di “rilancio del Mezzogiorno”. Segno dei tempi, e magari segnale ai possibili alleati: sono con Renzi, sì, ma anche no.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.