Dario Franceschini (foto LaPresse)

Tar, Tribunale Anti Riforme

Renzo Rosati

Perché la decisione sovranista del Tar del Lazio contro i direttori stranieri dei musei dimostra come la burocrazia vuole eliminare la buona riforma di Franceschini 

Il sovranismo, sbaragliato in Francia e nel resto d’Europa, traballante nei 5 stelle e nella Lega, e addirittura nell’agenda di Donald Trump, va alla riscossa nel Tar del Lazio, istituzione della giustizia amministrativa che tutto il mondo ci invidia. Con una sentenza della sezione “seconda-quater” il Tar ha annullato la nomina di 5 dei venti direttore dei musei di rilevanza nazionale voluti dalla riforma dei Beni culturali del ministro Dario Franceschini: motivo, il bando non poteva essere aperto a cittadini stranieri.

 

Quelli interessati direttamente dalla sentenza sono Peter Assman, già a capo dell’Associazione musei austriaci, scelto a dirigere il palazzo Ducale di Mantova, e Gabriel Zuchtriegel, tedesco, archeologo di fama mondiale e già docente all’Università della Basilicata, chiamato al Parco di Paestum. Entrambi hanno ottenuto performance mai viste: più 51 per cento di visitatori nel 2016 il primo, più 53 il secondo.

 

Direttori stranieri o provenienti dall’estero sono stati insediati anche agli Uffizi di Firenze (il tedesco Heike Schmidt), Urbino (l’austriaco Peter Aufraiter), Brera (l’anglo-canadese James Bradburne), Capodimonte (il francese Sylvaine Bellenger), Bargello (Paola D’Agostino, nata a Napoli e una carriera tra Gran Bretagna e Usa), e anche Flaminia Gennari Santori, romana con curriculum americano. Evidentemente in questi due ultimi casi né il Metropolitan di New York né lo University College di Londra sono stati a guardare il passaporto, e neppure i famosi “titoli interni”, simbolo dell’amministrazione pubblica italiana, magari conseguiti per anzianità. Forse perché non esistono Tar nello stato di New York o nella City of Westminster?

 

Se esistesse un Tar del Lazio anche per l’industria privata non avremmo amministratori delegati francesi all’Unicredit e alle Generali, e neppure Sergio Marchionne alla Fiat Chrysler: probabilmente la Fiat sarebbe fallita, e la seconda banca e il primo gruppo assicurativo italiano non se la passerebbero molto meglio. Egualmente un Tar del Lazio tedesco avrebbe bloccato la nomina dell’italiano Giuseppe Vita alla presidenza di Axel Springer e Schering, dell’inglese John Cryan alla Deutsche Bank, di un altro italiano, Mario Greco, a ceo di Zurich. Già, ma qui siamo nel settore privato, evidentemente considerato dalla giustizia amministrativa italiana geneticamente diverso da quello pubblico. Allora diciamo che un Tar del Lazio in trasferta a Londra avrebbe rimandato a casa il canadese Mark Carney, nominato dal cancelliere dello Scacchiere John Osborne governatore della Banca d’Inghilterra. E magari con un Tar laziale avrebbe, all’epoca, passato guai anche Henry Kissinger, tedesco ed ebreo, né Enrico Fermi e Edward Teller avrebbero collaborato ai progetti nucleari Usa. Chissà: la famosa direttiva Bolkestein che apre le frontiere europee a beni e talenti comunitari è stata lasciata in pace solo per il calcio. Ma non è mai troppo tardi.

 

“Non ho parole, ed è meglio…” dice Franceschini in attesa del solito Consiglio di stato. La scia del referendum del 4 dicembre è più lunga del previsto: Matteo Renzi aveva promesso “lotta violenta” alla burocrazia, riforma costituzionale compresa. Per ora abbiamo i burocrati alla riscossa.

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