La marcia di Max è in una sigla: Mdp, Massimo D'Alema premier

Al direttore - Cassano: se me lo chiede la Puglia…

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Aderiscono entusiasticamente all’appello per D’Alema premier. Ps.: non stiamo parlando dell’Italia, vero?

Valerio Gironi

Ci vuole un pochino di coerenza. Un vero guru oggi dovrebbe avere il coraggio di mettere da parte il suo veleno da magnifico scorpione e provare a non fare più il paraguru facendo l’unica cosa che occorrerebbe fare per non prendere in giro i propri elettori e non scaricare su qualcun altro, come sempre, le responsabilità di una possibile disfatta. La differenza tra un guru e un paraguru è tutta qui: tra chi guida un movimento ma si rifiuta di pesare in prima persona il proprio consenso popolare e chi accetta di farlo. Forza Max.

 


 

Al direttore - Concordo assolutamente. Ci vuole una grande guida come Max (e suggerirei Camusso vice) per liquidare la sinistra per sempre, è tempo che ciò accada.

Francesco Basani

 


 

Al direttore - Oui, c’est le moment! D’A - lé - ma - pré - si - dent!!!

Ignazio Cassanmagnago

 


 

Al direttore - Ottima l’idea di D’Alema premier, purché abbia a fianco come ministri almeno Davigo, Ingroia, Di Matteo, Di Maio e Di Battista, promuovendo anche la Raggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio: così il paese andrà a fondo e, dopo, la risalita avrà percentuali di crescita altro che il 3 per cento. Saluti.

Alberto Savoini

Ingroia era già in piazza a Roma il primo luglio a fianco di Max ad ascoltare commosso il compagno Bersani. Sarebbe il Massimo davvero vederlo candidato premier, il nostro Max. In fondo non può essere solo un caso che la sinistra a sinistra del Pd abbia scelto come sigla del suo movimento un acronimo che dice quello che proviamo a dire da giorni: in Francia EM significa En Marche ma anche Emmanuel Macron; in Italia Mdp significa Movimento Democratico e Progressista ma significa anche Massimo D’Alema Premier.

 


 

Al direttore - Desidero sottoscrivere l’appello di Claudio Cerasa: dopo tanto predicare bene e distruggere male di Massimo D’Alema, viene proprio voglia di dirgli: “Allora se sei così bravo vai avanti tu”! Sulla carta siamo tutti bravi, ma poi sul campo...

Manuel Tugnolo

 


 

Al direttore - Ohibò! Direttore Lei fa traballare dalle fondamenta le mie certezze! E io che pensavo che i Peter Pan potessero, al massimo, “anna’ a insacca’ la nebbia”! Faccio ammenda, mi redimo e firmo. Viva D’Alema candidato premier.

Antonio Zangrilli

 


 

Al direttore - Integralismo, no. Integralità, sì. Con buona pace de La Civiltà Cattolica (a proposito: ma oggigiorno non suona un pelo forte come testata?) e del tentativo condotto dal tandem Spadaro-Figueroa di rappresentare i pericoli di un cristianesimo radicale pernicioso tanto quanto (se non di più?) di altri terrorismi, in primis quello islamico, un cristiano è chiamato ad essere cristiano full-time, no part-time. Senza cioè quella distinzione, tipica delle religioni (e il cristianesimo non è una religione) tra sacrum e profanum. In piazza come in ufficio, tra le mura domestiche o alla partita di calcetto, in chiesa come in parlamento: se si è cristiani, lo si è sempre. Allo stesso modo, il giusto e sacrosanto rispetto per la laicità delle istituzioni, se da un lato mette al riparo da qualsiasi tentazione teocratica (vedasi l’islam), dall’altro non autorizza nessuno, nonostante a ciò punti il laicismo, a considerare la fede un affare di coscienza e, quindi, a relegarla negli angusti anfratti del foro interno. Questo perché la fede cristiana, per sua natura, ha a che fare con la storia. E toccando la storia non può non avere una ricaduta anche sulla polis. La fede è primariamente un incontro personale ed esistenziale con una Persona, pena la riduzione del cristianesimo a intellettualismo astratto; ma non si esaurisce nella propria vicenda, c’è anche un risvolto politico e sociale, nel senso più alto e nobile dei termini. Questo è stato, a ben vedere, l’errore di tanta parte del mondo cattolico, soprattutto nel post Vaticano II: credere che dirsi moderni significasse (significhi?) – anche sulla scia di una lettura piuttosto miope dell’autonomia delle realtà terrene – vivere la propria fede privatamente, lasciando alla politica e alle sue regole lo spazio pubblico. Ciò in cui è consistito, da un lato, la protestantizzazione di fatto della società e, specularmente, l’avanzata del laicismo. Ben diversa la prospettiva cattolica, che il Catechismo di s. Giovanni Paolo II così riassume al n.1888: “La priorità riconosciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi impone l’obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita, quando esse provochino il peccato, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia e favoriscano il bene anziché ostacolarlo”. Un’indicazione che più chiara non si può, per altro nel solco di Lumen Gentium 36: “Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l’esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane”. Spiace dirlo ma se è fin troppo evidente che rappresentare la realtà in un certo modo, dove il bene non sta tutto da una parte e il male tutto dall’altra, è un giochino funzionale ad uno scopo ben preciso, fintanto che si continuerà – in un nome di un irenismo sociale e cosmico non dissimile dall’anelito di certe fratellanze – a guardare al dito (la presenza in seno al cristianesimo di qualche mela marcia, che pure c’è o c’è stata) per non vedere la luna – il fatto cioè che il Vangelo in sé non predica alcun fondamentalismo e che anzi è stato Gesù di Nazareth a dire “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” – non andremo da nessuna parte se non ad ingrossare la già nutrita schiera degli utili idioti.

Luca Del Pozzo

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