Altro che comici, ecco la storiaccia "Casting JonBenet"

Mariarosa Mancuso

Il docu-crime su Netflix che mostra famiglie malmesse e inquietanti personaggi

L’algoritmo non lo consiglia. Non a noi, perlomeno. E’ troppo occupato a calcolare le percentuali di compatibilità che abbiamo con la schiera dei comici targati Netflix. Succede dopo aver goduto l’ultimo spettacolo del sempre immenso Louis C. K., insuperabile nell’alternare gli sghignazzi al brivido procurato dal gesso sulla lavagna. Abbiamo visto Trevor Noah: sudafricano nato nel 1984 – fuorilegge, vigeva l’apartheid – da madre nera e padre svizzero tedesco (ora conduce il Daily Show, un immigrato che ce l’ha fatta). Abbiamo visto Gad Elmaleh, comico francese di origine marocchina, altro immigrato che ce l’ha fatta. Abbiamo visto Aziz Ansari, comico di origine indiana che ha avuto successo con “Master of None”. Abbiamo visto Amy Schumer, bionda newyorchese che parla di sesso come nessuna femmina mai, e sugli immigrati messicani – sulla loro idea di “consenso”, in particolare – fa battute feroci. Deludenti, nel complesso. Per Amy Schumer in tacchi altissimi, strizzata in una tuta di pelle nera, lo diciamo con particolare sofferenza. (E che noia la regia: l’arrivo in teatro, i saluti dietro le quinte, via sul palco).

 

Mentre l’algoritmo di Netflix sputava i suoi consigli, abbiamo trovato solitaria soddisfazione in “Casting JonBenet”. La storiaccia aveva già incuriosito Joyce Carol Oates, che ne ricavò le quasi settecento pagine di “Sorella, mio unico amore”: la romanziera – magrissima, somigliante a Olivia di Braccio di Ferro – è sempre generosa con i suoi lettori. Predilige le famiglie malmesse e il grottesco della provincia americana. Nel caso di JonBenet Ramsey (Rampike, nella versione romanzesca) c’è abbondanza di Ogni cosa.

 

La reginetta di bellezza aveva sei anni, ed era il Natale 1996, quando la trovarono nella cantina di casa con il cranio sfondato, sotto una copertina bianca. A turno furono sospettati i genitori che ne avevano denunciato la scomparsa, poi il fratellino che forse era geloso, coperto dalla mamma o dal papà. Magari era un serial killer che passava di lì, ancora non esistono certezze sul caso ormai stagionato. Tra le stranezze, una lettera di riscatto scritta con carta e penna trovate in casa: chiedeva 118 mila dollari, la cifra precisa che papà Ramsey aveva intascato come bonus di fine anno.

 

La regista Kitty Green non gira un documentario. Fa un casting a Boulder, Colorado, dove la famiglia Ramsey viveva, fingendo di preparare un film. Le bambine di oggi fanno la fila per indossare il completino a stelle e strisce che JonBenet indossava ai concorsi di bellezza (peggio è l’abitino da cowgirl, tutto frange rosa). Le mamme non solo sono consenzienti. Si mettono anche loro in fila per il provino, vestite di rosso, come Patsy Ramsey il giorno della tragedia. Solo un’aspirante attrice arriva con giacca e filo di perle: “Ho visto tutte le foto, le aveva sempre addosso”.

 

Ognuno naturalmente – sennò che vicini di casa sarebbero? – ha la sua versione su come sono andate le cose in cantina e su chi davvero sia l’assassino. I cinque minuti davanti alla telecamera sono l’occasione per renderli pubblici, assieme a dettagli – mai allegri – della propria vita. Uno dichiara di aver evaso le tasse quando faceva lo psicologo, spera che ai produttori del film non spiaccia. Un altro racconta che di sera fa l’educatore sessuale (leggi: insegna a usare le fruste, con dimostrazione). Gli aspiranti Babbi Natale spiegano di avere assicurazione e certificazione (anche se qualcuno fa più paura del clown di Stephen King). Guanti bianchi per tutti, così si capisce dove mettono le mani.

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