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A Tokyo tocca il ruolo di padre rassicurante (anche) con la Corea del sud

Giulia Pompili

Il premier Abe parla con i vicini per rilanciare la collaborazione. Si consolida l’idea che la Casa Bianca sia pronta al “sacrificio” di Seul o Tokyo piuttosto che una metropoli americana

Tokyo, dalla nostra inviata. Dopo il sesto test nucleare nordcoreano, che ha sorpreso i giapponesi all’ora di pranzo domenica, il giro di consultazioni internazionali ha trovato il suo quartier generale nella capitale giapponese. Da una parte ci sono i segnali contrastanti che Washington continua a inviare a Pyongyang, ma dall’altra c’è anche l’isolamento cui è sottoposta l’altra metà di questa guerra che per il momento è uno show di forze, la Corea del sud. Il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha ancora pochissimo potere negoziale: Trump ha detto in un tweet che la presidenza sudcoreana sbaglia a insistere con il dialogo – un’apertura grazie alla quale, però, Moon è stato eletto dai suoi cittadini nel maggio scorso; e la Corea del sud subisce ancora l’ostracismo cinese per via dell’istallazione dello scudo antimissile americano Thaad sul suo territorio. Fino a poche settimane fa, l’impasse diplomatico riguardava anche il Giappone per via della questione mai chiarita delle “donne di conforto”.

   

Oggi però il premier giapponese, Shinzo Abe, ha avuto una conversazione telefonica di una ventina di minuti con Moon, durante la quale i due leader si sono trovati d’accordo su tutto: la Corea del nord viola le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, è una grave minaccia per i nostri paesi, serve la collaborazione di tutti. Il ruolo cruciale di Seul è stato pressoché ignorato fin qui da Trump, che oggi non ha avuto alcun colloquio diretto con Moon. E’ stato il primo ministro giapponese, invece, ad aver avuto una lunga conversazione con la Casa Bianca e pure con il presidente russo, Vladimir Putin. Secondo l’Asahi Shimbun, a questo punto la paura di Tokyo è che la questione possa sfuggire di mano alla Casa Bianca, e che alle minacce Trump faccia seguire un’azione.

   

Si è ormai consolidata l’idea, anche secondo fonti diplomatiche consultate dal Foglio, che Trump preferisca “sacrificare” Tokyo o Seul piuttosto che una metropoli sul territorio americano – per sacrificio s’intende una possibile reazione nordcoreana a un first strike. Dunque ogni gioco di forza con i paesi vicini va abbandonato (e le questioni in sospeso del Giappone sono tante, sia con la Russia sia con la Cina sia con la Corea del sud) a favore di una strategia comune e coordinata che tranquillizzi l’Amministrazione Trump. Di certo il cosiddetto “discorso di Berlino”, il discorso programmatico di Moon Jae-in pronunciato mesi fa nella capitale europea, era tutt’altro che trumpiano, anzi prometteva una rinascita dei colloqui e una soluzione del problema a carico esclusivo della Corea del sud.

   

Oggi il ministro della Difesa sudcoreano ha detto che, d’accordo con il presidente, Seul è pronta a concentrarsi sull’aspetto militare piuttosto che sulla visione esposta a Berlino, ma è una mossa per compiacere Washington. La Corea del sud e il Giappone sanno che l’unico modo per salvare la situazione è un dialogo ai massimi livelli che coinvolga la Cina e la Russia. Sul giapponese Nikkei, Hiroshi Minegishi scrive che per capire se Kim Jong-un potrà prima o poi convincersi ad abbandonare il programma nucleare e missilistico basta tornare indietro nel tempo, e ripensare alla guerra del 1950-1953. Un conflitto iniziato dal nord, all’improvviso. Kim Il-sung, il nonno dell’attuale leader nordcoreano, l’uomo al quale si ispira Kim Jong-un e artefice di questa dinastia divina che ormai poco ha a che fare col socialismo, da quella guerra aveva imparato una lezione: “Il suo esercito era sul punto di conquistare l’intera penisola coreana, quando le forze delle Nazioni Unite, guidate dall’America, arrivarono per salvare la Corea del sud, respingendo l’esercito invasore in una contro-offensiva lanciata dalla città della costa meridionale Busan. Le forze statunitensi erano state schierate dalle basi americane in Giappone”. Washington e Tokyo erano state determinanti per far fallire il piano di una riunificazione della Corea sotto il regime comunista. Se ci fosse un’altra guerra, di sicuro coinvolgerebbe tutti e tre gli attori: oltre alla Corea del sud, il Giappone e l’America. E qualcuno inizia a dubitare dello scetticismo che ha accompagnato gli analisti in questi anni in cui Pyongyang si preparava alla guerra. L’accelerazione tecnologica è indiscussa – fino a pochi mesi fa anche i vertici militari giapponesi parlavano del Hwasong-14, il potenziale missile balistico intercontinentale a cui stava lavorando il regime, come di una colonizzazione di Marte: possibile, ma così lontana nel tempo che difficilmente riusciremo a vederla coi nostri occhi. Nel frattempo però, Kim Jong-un ordinava di prepararsi a tutte le opzioni entro il 9 settembre 2018, in tempo per i settant’anni dell’indipendenza della Corea del nord, ovvero la nascita nel 1948 della Repubblica democratica di Corea.

   

In Giappone, l’unico paese al mondo ad aver subìto un attacco nucleare, oggi i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki protestavano di fronte al Memoriale della pace. Per le strade di Tokyo e Nagatacho, il quartiere politico della capitale nipponica, tutto prosegue business as usual: nessuno vuole discutere di Kim Jong-un, si parla soltanto del fidanzamento della principessa Mako.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.