Alcuni senzatetto nell'area di Buckingham Palace, a Londra (foto LaPresse)

Sconfiggere la povertà è possibile. Ma non si fa così

Sergio Belardinelli

Stiamo sbagliando approccio: non si tratta di ridurre le diseguaglianze ma di maggiore equità. E per fare questo solo il libero mercato, orientato al bene comune, può aiutarci

Le definizioni di povertà che troviamo nei dizionari di solito fanno riferimento a una “condizione”, contraddistinta da “scarsezza, penuria, insufficienza”, senza specificare il bene a cui questa scarsezza si riferisce (cfr. il dizionario Gabrielli della lingua italiana). Tale omissione, per molti versi ovvia, sta a significare che si può essere poveri di molte cose: di beni materiali, certo, dato che quella materiale è la povertà che si vede più facilmente, ma anche di beni immateriali, relazionali. Il più delle volte la mancanza degli uni influisce sulla mancanza degli altri e viceversa, dando luogo a una “condizione”, la cui dimensione materiale è sempre intrecciata con quella relazionale-socio-culturale. Se si escludono certe situazioni di estrema deprivazione, dove il problema è non morire di fame e di sete, direi che nessun uomo è povero (o ricco) allo stesso modo. Pur disponendo magari di identici mezzi di sussistenza, ognuno tenderà a vivere la povertà a modo suo, sentendosi più o meno povero, a seconda dell’ambiente socio-culturale in cui vive e dei suoi criteri socio-culturali di riferimento. Lo stesso dicasi per gli osservatori. Anch’essi osserveranno il fenomeno della povertà, secondo punti di osservazione variabili. Di conseguenza, quando parliamo di povertà, diventa rilevante anche la percezione che ne abbiamo, sia in quanto poveri che rientrano in quella condizione, sia in quanto semplici suoi osservatori. Al pari della temperatura dell’aria, anche per la povertà l’essenziale non dipende tanto da quanto ci dicono gli strumenti con i quali la misuriamo, ma da come la percepiamo. Essa varia nel tempo al variare delle dimensioni materiali e socioculturali che la contraddistinguono. Per questo la povertà, meglio sarebbe dire le povertà, antiche quanto sono antichi gli uomini, sono sempre anche nuove, come lo sono le sfide con le quali ci costringono a fare i conti.

     

Quando parliamo di povertà, diventa rilevante la percezione che ne abbiamo, sia in quanto poveri sia in quanto osservatori

Sebbene la politica dei singoli stati non sempre se ne occupi in modo adeguato, la povertà rappresenta sicuramente uno dei flagelli più pesanti della nostra epoca. Il primo degli otto obiettivi del programma di sviluppo varato dalle Nazioni Unite nel 2000, “The Millennium Development Goals”, è rappresentato proprio dalla lotta alla povertà; lo stesso dicasi per i diciassette obbiettivi del programma che, come continuazione di questo, ha preso il via nel 2015, lo “United Nation’s Sustainable Development Goals”. Recentemente la Banca Mondiale ha pubblicato il suo primo rapporto su “povertà e disuguaglianza” (Taking on Inequality, Report 2016) che mira a ridurre la povertà più estrema, che nel 2015 interessava il 10,7 per cento della popolazione mondiale, al 3 per cento nel 2030. La riduzione del numero delle persone a rischio povertà o esclusione sociale è uno dei principali obbiettivi strategici di Europa 2020. Per non dire della letteratura scientifica sull’argomento, la quale ha raggiunto ormai, in tutto il mondo, dimensioni sempre più vaste e accurate.

    

Che cosa significa questa importante attenzione alla povertà da parte degli studiosi e delle principali istituzioni internazionali? Significa che il nostro mondo è diventato più povero di quanto fosse il mondo di ieri? Assolutamente no, almeno in termini, diciamo così, materiali. Significa semplicemente che, grazie soprattutto all’enorme crescita di beni resi disponibili dagli odierni mezzi di produzione e da quella che chiamiamo economia di mercato, grazie altresì alla diffusione su scala globale dell’idea di uguale dignità di tutti gli uomini, la povertà appare, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, come un flagello eliminabile e che anzi, per molti, è doveroso eliminare. Dirò qualcosa nella seconda parte del mio intervento sui mezzi più adeguati a combattere questa battaglia contro la povertà. Come sappiamo, le opinioni in merito sono tutt’altro che concordi; la diversità di vedute è spesso radicale. Ma, anche a seguito della crisi economica del 2008, la povertà sta guadagnando comunque uno spazio crescente all’interno del dibattito pubblico internazionale. E almeno questo è sicuramente un buon segno.

    

Che cosa ci dicono, molto sinteticamente, i dati empirici contenuti nei programmi internazionali che ho citato sopra? Anzitutto una buona notizia: nel 2015 il numero dei poveri estremi, cioè il numero di coloro che vivono con un reddito pro capite inferiore a 1,25 dollari al giorno, è sceso al 12 per cento della popolazione mondiale. Nel 1990 era al 36 per cento. Siamo passati insomma da un miliardo e 900 milioni di persone che vivevano in estrema povertà nel 1990 alle circa 800 milioni del 2015, e questo nonostante il contemporaneo aumento della popolazione mondiale di circa due miliardi di persone.

   

La nostra società è in preda a una crisi che è soprattutto antropologica, non economica. Serve una catarsi culturale

Per quanto mi riguarda, considero questo numero ancora drammatico, per certi versi persino scandaloso, ma resta il fatto che, dal 1990 al 2015, il mondo ha un miliardo e cento milioni di poveri in meno; la percentuale di denutriti nei paesi in via di sviluppo è crollata di quasi la metà, passando da un bambino denutrito su quattro, nel 1990, a uno su sette nel 2015; per non dire degli enormi progressi che si sono fatti sul fronte della battaglia all’analfabetismo, forse il fronte decisivo nella battaglia contro la povertà, o di quello della diffusione delle cure mediche. Stando al Rapporto della Banca Mondiale, si direbbe che persino sul fronte della lotta alla disuguaglianza ci siano segnali positivi. Esso ci dice in proposito che, tra il 2008 e il 2013, coloro che appartengono alla fascia dei cosiddetti “ultimi 40” hanno beneficiato della crescita economica in molti paesi. In 60 paesi su 83 monitorati, gli ultimi 40 hanno fatto registrare un aumento del loro reddito. Un totale di 49 paesi registra uno “share prosperity premium” positivo: la crescita del reddito degli ultimi 40 è più alta di quella media (e quindi di quella dei 60 che stanno nella fascia superiore). Le performance migliori si sono avute nei paesi dell’est asiatico, del Pacifico, dell’America latina e dei Caraibi, mentre i paesi altamente industrializzati ad alto reddito hanno dato il peggio. La Grecia ha registrato una contrazione del reddito annuale degli ultimi 40 pari al 10 per cento, mentre la Repubblica democratica del Congo ha registrato un aumento del 9,6 per cento. In America latina e nei Caribi il reddito degli ultimi 40 è cresciuto dell’8 per cento (Taking on Inequality, pag. 7).

    

Tutti questi dati sembrerebbero indurre a un certo ottimismo. Eppure ci sentiamo tutti piuttosto insoddisfatti. Perché? La mia insoddisfazione, per esempio, ha un risvolto pratico e uno teorico. Il risvolto pratico riguarda soprattutto il divario che esiste tra i programmi di lotta alla povertà che vengono portati avanti dalle istituzioni internazionali e le azioni politiche concrete che i diversi paesi mettono in atto per contrastare questo flagello. Decisamente troppo poco. Il risvolto teorico della mia insoddisfazione riguarda invece l’ostilità diffusa, soprattutto in Occidente, nei confronti del libero mercato e della globalizzazione, ritenuti addirittura i principali responsabili del problema di cui stiamo parlando.

  

Se c’è una certezza che emerge dai dati forniti dai rapporti delle Nazioni Unite di questi ultimi anni, è che la globalizzazione ha reso senz’altro meno poveri i più poveri del mondo, creando altresì maggiori opportunità di fuoriuscita dalla povertà per milioni di persone. E francamente questo non mi sembra un aspetto trascurabile. I problemi che essa genera riguardano semmai alcuni importanti capitali sociali che consentivano agli individui di sentirsi più facilmente parte di una comunità e che oggi, essendosi usurati, ci fanno sentire invece senza casa e senza radici; capitali sociali senza i quali, peraltro, difficilmente il mercato e tante altre forme culturali tipiche del nostro occidente sarebbero diventati “mondo”, secondo la celebre espressione di Max Weber. Ma di questa usura, di questa che non esiterei a definire una nuova forma di povertà, non è responsabile in primo luogo la globalizzazione, bensì la cultura occidentale stessa. L’Occidente è preda, non da oggi, di una vera e propria crisi antropologica, che ha poco a poco estraniato l’uomo occidentale da se stesso e dagli altri uomini, rendendolo un semplice ingranaggio di una macchina che si muove sempre di più come se lui non ci fosse. L’immagine luhmanniana dell’uomo relegato nell’“ambiente” di sistemi sociali che funzionano secondo codici che non hanno più nulla a che vedere con l’umano è da questo punto di vista illuminante e inquietante insieme. Naturale che in questo contesto venissero meno certi capitali sociali quali la fiducia, la responsabilità, la solidarietà, la compassione, la fedeltà, l’onestà, la veridicità e si potrebbe continuare. Per inciso, faccio notare, che il deficit di questi capitali sociali configura tante nuove forme di povertà. In ogni caso, lo ripeto, l’usura di questi capitali sociali è dovuta, non tanto alla globalizzazione, quanto a una cultura, quella occidentale appunto, la quale diventa mondo proprio nel momento in cui al proprio interno vanno in crisi i presupposti antropologici (greci, giudaico cristiani e illuministi) che l’avevano resa così grande e potente. E’ la storia di questi ultimi trent’anni. Economia di mercato, scienza e tecnica, i veri araldi della globalizzazione, si espandono su scala globale senza che dentro di loro ci sia più traccia dello spirito che li ha generati. Se a questo aggiungiamo la crisi della politica, rimasta anch’essa vittima di questo stesso processo di svuotamento, la sua crescente incapacità di governare le nuove sfide che abbiamo di fronte, ecco che il quadro si delinea in tutta la sua allarmante dimensione.

  

Ritornando al problema della povertà, forse il motivo della nostra avversione alla globalizzazione è dato dal fatto che essa tende a rendere più insopportabile la povertà percepita, sia agli occhi di coloro che la vivono sulla propria pelle, sia agli occhi di coloro che semplicemente la osservano. Senza questo surplus in termini di povertà percepita, non si capirebbe l’esodo in massa di popolazioni povere, ma non poverissime, verso i paesi più ricchi, che stiamo registrando in questi anni, specialmente nel Mediterraneo. Né si capirebbe il crescente senso di solidarietà da parte delle popolazioni ricche nei confronti di quelle più povere, al di là delle chiusure che pure si manifestano. Qui sembra proprio il caso di dire con Hölderlin che dove crescono i pericoli crescono anche le speranze di salvezza.

   

Sono precisamente le povertà che, manifestandosi, mettono questo nostro mondo globale di fronte alla necessità di globalizzare con decisione e realismo, non con stucchevoli quanto sterili sensi di colpa, anche il grande patrimonio culturale di cui disponiamo, in termini soprattutto di dignità, libertà e responsabilità di tutti gli uomini. La globalizzazione sta aumentando insomma non soltanto i beni materiali, ma, nonostante i rigurgiti di egoismo, chiusura e violenza che ci vediamo intorno, nonostante la sterile retorica sentimentale e autoflagellante nei confronti degli ultimi, dettata forse, più che dal cuore, dal desiderio di farsi belli davanti all’opinione pubblica, da parte soprattutto di molti intellettuali e politici occidentali, nonostante tutto questo, dicevo, la globalizzazione sta aumentando anche il grado di autentica sensibilità morale dei popoli e delle nazioni.

   

“Senza il necessario – si legge nella Politica di Aristotele – è impossibile sia vivere che vivere bene”. Una vita veramente umana, questo il senso dell’affermazione di Aristotele, può iniziare soltanto una volta che abbiamo il “necessario” per vivere. Coloro che dispongono di un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno hanno soltanto il problema di sopravvivere, non certo quello di “vivere bene”. E d’altra parte una “vita buona” non può essere misurata soltanto sulla disponibilità dei beni materiali necessari alla sopravvivenza. L’uguaglianza di quantità e qualità (più risorse materiali = migliore qualità della vita) vale soltanto al di sotto dei livelli di sussistenza. Soltanto laddove si muore di fame o si vive in condizioni di estrema povertà, un pezzo di pane o un lavoro precario e mal retribuito possono rappresentare automaticamente un miglioramento della vita umana. Ma una volta superata questa situazione d’indigenza l’automatismo non vale più. Come ho cercato di dire all’inizio, la qualità della vita umana è qualcosa che si gioca sia sulla dimensione materiale che su quella, in senso lato, socio-culturale. Così, accanto alla disponibilità di beni materiali, di un reddito che consenta un certo grado di consumo, giocano un ruolo importante anche altri fattori, quali la salute, le aspettative di vita, l’istruzione, la capacità di scelta delle persone, un ambiente naturale e sociale soddisfacente, la tutela dei diritti umani e via di seguito.

    

Siamo passati da un miliardo e 900 milioni di persone che vivevano in estrema povertà nel 1990 a circa 800 milioni del 2015

Per dirla con le parole dello “United Nations Development Programme” (UNDP), l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo “Lo sviluppo umano ha due volti. Uno costituito dalla formazione delle capacità umane basilari, come il miglioramento della salute, della conoscenza, delle abilità. L’altro è l’uso che le persone fanno delle loro capacità –per fini produttivi, per il tempo libero o per essere attivi nelle relazioni culturali, sociali o politiche. Se i due volti dello sviluppo umano non saranno finemente bilanciati, ne potrebbe derivare una notevole frustrazione umana. D’accordo con il concetto di sviluppo umano, il reddito rappresenta solo un’opzione che le persone desiderano avere, anche se un’opzione importante. Ma non è il totale delle loro vite. Il proposito dello sviluppo è di incrementare le scelte umane, non solo il reddito”.

   

La svolta che indicano i documenti dell’Onu sullo “sviluppo umano” è importante proprio in considerazione del superamento della prospettiva, diciamo così, economicistica, che per tanti anni, anche in quella sede, ha tenuto banco, quasi che lo sviluppo coincidesse automaticamente con l’aumento del prodotto interno lordo di un paese. Oggi, grazie anche al contributo determinante di pensatori come il premio Nobel Amartya Sen o Martha Nussbaum, la qualità della vita delle persone viene misurata non soltanto sui beni materiali o sulle prestazioni di welfare di cui possono beneficiare, ma sulle concrete possibilità che esse hanno di convertire alcuni beni, alcune risorse, le stesse prestazioni che ricevono dallo Stato in una qualità di vita soddisfacente. In questa prospettiva, diventa sempre più evidente che il reddito non rappresenta il “totale” delle nostre vite. Si potrebbe avere infatti una discreta qualità di vita anche con un reddito relativamente modesto, se, poniamo, si considera la sobrietà un valore importante e si hanno magari relazioni sociali soddisfacenti; così come si potrebbe avere una pessima qualità di vita anche con redditi elevati, se ad esempio non riusciamo a tenere a freno il nostro desiderio di avere di più o se, per qualsiasi ragione, ci troviamo a vivere in un paese con pochissimi beni disponibili. Ma soprattutto diventano determinanti l’istruzione e la formazione di cui si dispone, quindi, in senso molto lato, la cultura, il modo d’essere e di pensare degli individui e delle comunità.

  

Oltre alla disponibilità di beni materiali, giocano un ruolo importante anche altri fattori, la salute, l'aspettativa di vita, eccetera

Evidentemente quando parliamo di povertà siamo soliti porre attenzione soprattutto sulle povertà materiali, quelle più visibili, ma specialmente nel mondo occidentale dobbiamo forse considerare il fatto che molte povertà non si manifestano a questo livello, anche se spesso sono collegate ad esso. Penso ad esempio a certe povertà che affliggono il mondo giovanile o quello degli anziani. Sono soprattutto povertà relazionali, non la scarsità di beni materiali, che impedisco alle giovani generazioni di sentirsi veramente generate, di appartenere a una storia, di sentirsi a casa nel mondo che abitano; sono povertà relazionali che relegano gli anziani in una sorta di limbo fatto soprattutto di solitudine e di paura. Sono povertà culturali che espongono individui e comunità al fanatismo identitario e alla paura del mondo globale. Paradossalmente sono proprio coloro che si sentono più radicati in una comunità e in una storia ad essere più aperti e più disponibili nei confronti della diversità. La globalizzazione, come ho già detto, affinché se ne potesse sfruttare al meglio le enormi opportunità, avrebbe avuto bisogno soprattutto di questa consapevolezza, e invece il momento del suo massimo dispiegamento è coinciso col massimo dello spaesamento culturale dei suoi artefici. Sono povertà culturali che imprigionano milioni di persone in una sorta di ansia da prestazione che rende le loro vite sempre più frustrate, isteriche e insoddisfacenti. Sono, infine, povertà culturali che spingono le famiglie e le coppie di molti paesi europei, vedi soprattutto l’Italia, ma anche la Germania e la Spagna, a non mettere più al mondo i figli. E qui, in questa che i demografi chiamano la nostra morte demografica, direi che le nuove povertà trovano il loro culmine. Una società che non è più capace di generare, infatti, è una società alla deriva, una società in preda a una crisi che, lo ripeto, è soprattutto antropologica, non economica, e che potrà risollevarsi soltanto a condizione che al suo interno si generi una sorta di catarsi culturale. Famiglia, scuola, chiese, istituzioni politiche, tutti dovrebbero diventare consapevoli che è precisamente a livello culturale, educativo, che si gioca la partita principale del nostro tempo.

  

La stessa battaglia contro la povertà più estrema si gioca soprattutto sul piano culturale, sul piano dell’istruzione e della formazione. I dati dell’ultimo rapporto della Banca Mondiale sulla povertà e la disuguaglianza ci dicono, ad esempio, che tra le popolazioni più povere, i più poveri sono coloro che hanno un’età compresa tra 0 e 14 anni; ci dicono altresì che meno dell’8 per cento di coloro che hanno un diploma di scuola primaria appartengono alle fasce più povere; ci dicono infine che il successo dei programmi di fuoriuscita dalla povertà dipende principalmente proprio da quanto si riesce a fare nel campo dell’istruzione.

  

Ovviamente un conto sono i poveri che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno, altro conto sono i poveri europei, considerati tali quando il loro reddito è pari o inferiore al 60 per cento del reddito mediano del paese in cui vivono (Eurostat). Eppure è estremamente significativo il fatto che in entrambi i casi le speranze di migliorare le proprie condizioni di vita dipendano in gran parte dall’istruzione e dalla formazione. Più si hanno queste risorse e più sarà facile uscire dall’indigenza. Più si esce dall’indigenza e più ci sarà bisogno di queste stesse risorse per migliorare la qualità delle nostre vite.

  

Ma la cultura è importante non soltanto per combattere la povertà. La cultura è decisiva anche per definire la povertà, specialmente se consideriamo la differenza che c’è tra i poveri che non riescono ad accedere neanche al cibo e all’acqua e quelli, la maggioranza dei poveri nei nostri paesi europei, che non dispongono invece delle risorse o delle “capacità” essenziali per non sentirsi estraniati, esclusi dalla comunità in cui vivono. Essere analfabeti o non disporre del frigorifero in un paese europeo potrebbe essere un segno di povertà non molto diverso dalle povertà estreme che conosciamo in certi paesi dell’Africa subsahariana. Un conto è essere analfabeti nell’Europa di oggi, altro conto esserlo nell’Europa di cento anni fa. Come dicevo all’inizio, la povertà è anche povertà relazionale, povertà sociale, quindi povertà che dipende dal tempo e dal luogo a cui si fa riferimento. Per questo le povertà sono per certi versi sempre nuove; esigono risorse socio-culturali sia per poterne uscire, sia per poterle vedere.

  

Su questa linea di definizione della povertà si muovono ormai non soltanto i principali studiosi del problema, ma essa è stata adottata anche da Eurostat per l’Unione Europea. Secondo Eurostat, infatti, sono da considerarsi a rischio di grave deprivazione materiale tutte quelle persone che non sono in grado di fronteggiare ad almeno quattro delle seguenti tipologie di spesa: spesa imprevista di 800 euro, costi di una settimana di vacanza all’anno fuori casa, pagamento del mutuo, dell’affitto, delle bollette, del riscaldamento dell’abitazione, acquisto di generi alimentari per un pasto proteico ogni due giorni, spese di gestione di un’automobile o per l’acquisto di alcuni elettrodomestici. Inutile sottolineare come questi parametri riflettano un importante riferimento socio-culturale che costringe a guardare la povertà con un occhio, diciamo così, più attento. L’importante, però, è che anche questo sguardo non venga fagocitato dentro quello che considero uno degli equivoci culturali più potenti della nostra epoca, secondo il quale povertà e disuguaglianze sarebbero da imputare al cosiddetto “liberismo”.

  

In estrema sintesi si tratterebbe di questo. Ci sono i poveri e le disuguaglianze perché c’è il libero mercato, animato da un’ingordigia senza fine. Si può quindi uscire dalla povertà e fronteggiare le disuguaglianze soltanto a condizione di bloccare la globalizzazione e mettere il mercato sotto controllo politico. Un’idea, questa, sulla quale fino a pochi anni fa ha speculato una certa cultura di sinistra per imputare la povertà dei paesi poveri allo sfruttamento da parte di quelli ricchi, e sulla quale specula oggi una certa cultura di destra per imputare sempre alla globalizzazione l’impoverimento delle classi medie. Persino in Italia, un paese dove la politica pervade in modo quasi sovietico qualsiasi ambito della vita sociale, compresa l’economia, ci sentiamo raccontare che l’aumento della povertà di questi ultimi anni, specialmente nella cosiddetta classe media, nonché l’aumento delle disuguaglianze sarebbero da imputare al libero mercato, al “liberismo” e alla globalizzazione, anziché alla inadeguatezza della politica, spesso semplicemente al servizio degli interessi economici più potenti.

  

Con questo non intendo affermare ovviamente una sorta di improbabile e astratta “purezza” del mercato e dei suoi operatori. Il mercato esprime soltanto una modalità di raccolta e di trasmissione di informazioni in ordine alla domanda di beni e servizi, coordinata dal sistema dei prezzi. Quanto agli imprenditori, essi dovrebbero essere coloro che producono e innovano secondo la domanda dei consumatori, non secondo le sovvenzioni della politica o in virtù di qualche monopolio. Ma già Adam Smith aveva ben chiaro che il mercato allo stato puro non esiste da nessuna parte. Esistono beni e servizi, poniamo la droga o il traffico di esseri umani, che non possono rientrare tra i beni e i servizi grazie ai quali produrre profitto; così come esistono imprenditori i quali preferiscono affidarsi più alle protezioni della politica che alla libera concorrenza. Il che significa una chiara consapevolezza sia del fatto che mercato, denaro e profitti non sono tutto, essendoci valori, ad esempio la dignità della persona umana, che li supera, sia del fatto che monopoli o perverse alleanze tra imprenditori e potere politico, a tutto danno del mercato e della libertà dei cittadini, sono sempre all’opera a qualsiasi latitudine. In questo senso anche il mercato è sempre in qualche modo sottoposto a vincoli di varia natura, spesso nobili, come quando ad esempio si impedisce il traffico di esseri umani, e in questo caso l’intera comunità se ne avvantaggia, altre volte meno nobili, come quando è la politica a determinare i beni da produrre, con grave danno di tutti, in primis del mercato stesso. Traducendo sul piano economico ciò che Wolfgang Boeckenfoerde disse dello stato di diritto, potremmo dire che anche il mercato vive di presupposti (socio-culturali) che da solo non è in grado di garantire. Per questo il mercato funziona in modo diverso nei diversi contesti socio-culturali. Ma ciò non toglie che, per quanto spureo, esso continui a rappresentare lo strumento migliore per accrescere la ricchezza: la ricchezza in generale, non soltanto quella di alcuni.

  

So bene di ragionare un po’ da liberale all’antica, ma il dovere che abbiamo di aprire gli occhi sulla povertà, il fatto che ne sentiamo i morsi sulla coscienza, se non proprio sulla pelle, non vuol dire che bisogna buttare per aria il libero mercato e la globalizzazione e riporre invece le nostre speranze nello stato. Su questo oggi concordano invero sia i populismi di sinistra che quelli di destra, ai quali anche molti cattolici danno spesso il loro contributo. Se però guardiamo la realtà dei nostri paesi occidentali, dobbiamo prendere atto che la principale causa dell’aumento della povertà e delle disuguaglianze di questi ultimi anni di crisi dipende più dalla cattiva volontà e dalle inefficienze della politica e dello stato che dal mercato, più dalle commistioni tra politica e mercato che dal libero mercato. E’ stata spesso la politica che in questi anni ha sistematicamente reindirizzato le possibilità di guadagno sui ricchi piuttosto che sui poveri, a danno non soltanto delle più elementari esigenze di giustizia, ma anche della stessa vitalità del mercato. E’ spesso la politica che fa diventare certi imprenditori troppo potenti, tollerando o favorendo la formazione di monopoli, in cambio di potere e magari anche di denaro. Siamo dunque sempre alle prese con la stessa storia; per dirla con Platone si tratta sempre della umana pleonexia, l’ingordigia che spinge gli uomini a voler sempre avere di più; una sorta di mysteriuminiquitatis, al quale la cultura cristiana occidentale ha cercato di porre rimedio proprio grazie al libero mercato e alle libere istituzioni dello stato di diritto.

  

Anziché condurre battaglie ideologiche di qualsiasi tipo, credo che proprio la sfida delle povertà e delle disuguaglianze imponga che politica e mercato riscoprano la loro autonomia, ma anche il senso della loro finalità comune: il bene dell’uomo. Un bene che non coincide mai con la ricchezza e il potere fine a se stessi, né può tollerare il dispotismo del potere e del denaro che vediamo all’opera su scala globale, ma che non può essere neanche realizzato secondo i progetti di qualche illuminato che pretende di farlo magari contro la volontà dei diretti interessati.

  

Ma mi sia consentita un’ulteriore provocazione a proposito di povertà e disuguaglianze. L’ultimo rapporto della Banca Mondiale ci dice che “in generale la povertà può essere ridotta grazie a una maggiore crescita media, grazie a una diminuzione delle disuguaglianze oppure a una combinazione di entrambe. Raggiungere la stessa riduzione di povertà in tempi di crisi economica richiede quindi una maggiore equità nella distribuzione dei redditi”. Senza entrare nel merito di questa proposta, anzi, prendendola per buona, non sono tuttavia sicuro (ecco la provocazione!) che, da un punto di vista morale, la semplice disuguaglianza economica sia di per sé l’aspetto più rilevante. A tal proposito, il 7 aprile scorso la celebre rivista “Nature Human Behaviour” ha pubblicato un articolo molto interessante, dove si cerca di mostrare come “nonostante le apparenze contrarie, non ci sia nessuna evidenza che dica che le persone sono disturbate dalla disuguaglianza economica. Piuttosto esse sono disturbate da qualcosa che viene spesso confuso con la disuguaglianza, e cioè dall’iniquità economica”. Basandosi su una mole incredibile di ricerche condotte su persone di ogni fascia di età, a cominciare da bambini di tre anni, gli autori concludono che gli uomini sono per una “distribuzione equa”, non per una “distribuzione uguale”; inoltre, quando equità e uguaglianza confliggono, essi preferiscono una “disuguaglianza equa” a una “uguaglianza iniqua” (C. Starmans, M. Sheskin & P. Bloom, Whaypeoplepreferunequal societies, in “Nat. Hum. Beha.”, 1, 0082 (2017)).

  

Il fatto che le ricerche empiriche ci dicano che la gente non ha un’avversione per la disuguaglianza in sé, bensì per l’iniquità, è un motivo incoraggiante, affinché, anche sul piano della riflessione morale, se ne tenga conto. Pur con tutto il disgusto che può essere provocato da certi consumi da parte dei ricchi, il problema morale dei poveri non è dato dal fatto che essi non hanno gli stessi gioielli o le stese automobili dei partecipanti alle feste del Grande Gatsby; questo semmai dovrebbe essere un problema morale per i ricchi stessi. Il principale dovere morale che una comunità politica ha nei confronti dei poveri è quello di garantire a tutti le stesse opportunità di sviluppare alcune “capacità” che riteniamo indispensabili per una vita decente e senza le quali diventerebbero una parvenza gli stessi diritti politici e l’uguaglianza politica. Questa è l’uguaglianza di cui dovrebbe preoccuparsi la comunità, non l’uguaglianza economica. I poveri non hanno diritto agli stessi gioielli dei ricchi, ma hanno diritto di imparare a leggere e a scrivere, di avere una casa, di poter mandare i figli a scuola e via dicendo secondo i parametri di Eurostat.

  

La storia di questi ultimi due secoli ci insegna che il modo migliore di garantire questi sacrosanti diritti è quello di aumentare la ricchezza, l’ampiezza della torta, investendo risorse sull’innovazione e, soprattutto, sul “capitale umano”, la ricchezza più grande di tutte le nazioni, unitamente alle istituzioni dello stato di diritto liberale e democratico. Questo ovviamente non vuol dire che nel contrasto alla povertà ci si debba affidare esclusivamente alla logica del mercato. Tale contrasto rimane principalmente un dovere politico. Ma non credo che per assolvere tale dovere, la politica debba diventare un protagonista del mercato o sbaraccarlo, sostituendolo con un’economia pianificata. La politica deve garantire le condizioni istituzionali per lo sviluppo della libera imprenditoria, a cominciare dalla tutela della proprietà privata; deve porre dei limiti a ciò che può essere fatto oggetto di libero scambio; deve, ecco il punto, destinare risorse al fine di garantire a tutti i cittadini le stesse opportunità di sviluppo delle proprie “capacità”. Spetta alla politica garantire la libera concorrenza; spetta alla politica impedire che il denaro, che è già di per sé una forma di potere, diventi una sorta di dispotismo politico; spetta alla politica soddisfare quel bisogno di giustizia, da non confondere con l’uguaglianza economica, che pare essere molto diffusa tra i cittadini. Concludendo, potremmo dire che la politica, almeno fintanto che essa vuole rimanere fedele alla sua migliore tradizione liberale e democratica, deve guardarsi soprattutto da due errori: il primo è quello di farsi guidare dal denaro, il secondo è quello di pretendere di diventare essa stessa padrona dell’economia. In entrambi i casi, come dimostra la storia recente e quella passata, a perderci saranno sempre i cittadini, specialmente quelli più poveri.

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