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Mediaset-Vivendi e la scoperta dell'interesse nazionale

Mario Sechi

Il no pasaran alla Francia è completo e fa davvero piacere vedere questa schiera di patrioti sul fronte. Ma Mediaset è strategica?

Questa settimana il Belpaese ha fatto una grande scoperta: l’interesse nazionale e i cosiddetti asset strategici. Erano là, da sempre, ma il setaccio dei nostri cercatori d’oro del Klondike ha vibrato quando Vincent Bolloré ha cominciato a scalare Mediaset. Tutti hanno parlato: Banca Intesa, il governo, l’Autorità per le comunicazioni. La Consob accende i fari (di solito spentissimi) e la Procura di Milano è “al lavoro”.  Il no pasaran alla Francia è completo e fa davvero piacere vedere questa schiera di patrioti sul fronte. Mediaset è strategica? Ok, lasciamo perdere il chiaro contesto politico in cui si svolge la vicenda e diamo per buona questa idea, non possiamo certo negare che Maria De Filippi sia vitale per l’economia e la difesa dell’Italia. E’ un po’ singolare assistere a una così straordinaria mobilitazione per il gruppo Mediaset e a un assordante silenzio quando Unicredit decide la cessione di Pioneer, un player importante della finanza, ai francesi di Amundi subito dopo il No al referendum. C’era anche un’offerta di Poste, ma ha vinto Parigi. Nessuno ha alzato l’indice per dire qualcosa. Il risparmio degli italiani viene gestito dai francesi non è strategico, il Segreto e Tempesta d’Amore invece sì. Strano paese.

D’altronde, quando Pechino ha comprato attraverso la State Grid Corporation of China il 35 per cento di Cdp Reti nessuno dei campioni del tricolore ha emesso un grido. Che cosa è Cpd Reti? E’ il veicolo della Cassa depositi e prestiti che gestisce gli investimenti in Terna, Snam e Italgas. Traduzione: la Cina è entrata dalla porta principale in due settori vitali dello Stato italiano: energia elettrica e gas. Riepiloghiamo: il finanziere bretone è un pericolo per la patria, i sinceri democratici cinesi invece no. Qualche settimana fa il premier inglese Theresa May ha annunciato una revisione delle regole sugli investimenti stranieri nel Regno Unito in quelle che si chiamano “critical infrastructure” e il progetto della centrale nucleare di Hinkley Point è sotto revisione proprio per la presenza della Cina. Poco tempo fa la cancelliera tedesca Angela Merkel – dopo un avviso arrivato direttamente dalla Casa Bianca - ha bloccato l’acquisto di Aixtron (produce film sottili, soluzioni tecnologiche avanzate per l’elettronica) da parte di un fondo di investimento di Pechino. Achtung.

Tutto bene, continuiamo il viaggio. Dove va l’industria dei media? Per capire dove non va, basta vedere cosa fa l’Autorità per le Comunicazioni, l’AgCom che ha sollevato eccezioni preventive su una concentrazione Telecom-Mediaset, cioè il progetto di Bolloré. Il quale non inventa niente: il mondo della comunicazione infatti procede al galoppo verso la fusione di tlc e media, connessioni e contenuti, per evitare di essere schiacciato dai titani di internet o, viceversa, per essere salvato dalla rete.

Il problema in questa storia non è la difesa del ruolo di proprietario di Silvio Berlusconi e della sua famiglia, quella è una mossa logica e doverosa, e neanche l’azione di Bolloré che fa il suo mestiere come l’ha sempre fatto. Qui il tema è, come spesso capita dalle nostre parti, la stupefacente reazione di terze parti, finanziarie, industriali, politiche e istituzionali che con un dibattito sottozero certificano l’ignoranza della materia e l’assenza di una riflessione sulla politica industriale del paese, in questo caso sul futuro del settore dei media tradizionali, i cui margini di ricavo si stanno paurosamente riducendo in favore dei nativi digitali con mostruosa disponibilità di cassa. La cosiddetta classe dirigente sembra quella di un paese fermo agli anni Ottanta.

La prima pagina della sezione Companies & Markets del Financial Times di stamattina dovrebbe far girare qualche neurone al Palazzo:

Rupert Murdoch ha lanciato un’offerta da 11.7 miliardi di sterline per il controllo di Sky UK (di cui ha già una quota). L’operazione ha una ragione che non dovrebbe sfuggire neppure ai patrioti: razionalizzare il business, fidelizzare 100 milioni di utenti e affrontare la concorrenza di Netflix, Amazon e gli altri giganti della rete nella diffusione di contenuti multi piattaforma. Non è abbastanza chiaro il concetto? Il mondo corre. Seguite il titolare di List. New York Times, sezione media: “BBC and ITV to Offer Streaming Service of British Shows in U.S.”. Si chiama espansione dell’offerta, si punta al mercato americano, il servizio si chiamerà BritBox, sarà sviluppato in partnership da BBC e ITV che nel Regno Unito sono rivali. Nel frattempo, la Sony ha imbarcato tra i suoi consiglieri Peter Liguori, Ceo di Tribune Media (42 stazioni locali nel broadcasting americano, 50 milioni di telespettatori, 1.500 ore di news alla settimana), per rilanciare l’attività televisiva del gigante giapponese. Dulcis in fundo, il gruppo Time Inc. (sì, quelli della copertina sul personaggio dell’anno e molto altro ancora) è in vendita. Come dicevamo, il mondo corre. E i media tradizionali hanno bisogno di essere ripensati. Televisione. E carta stampata. Settore che ha bisogno di una rivoluzione di prodotto e modello di business, dove solo due gruppi editoriali negli ultimi cinque anni hanno prodotto utili, Cairo e l’Espresso. Ecco la situazione dipinta dal rapporto R&S di Mediobanca:

Lo scenario, come vedete, è qualcosa di leggermente più complesso di quello che viene dipinto dal dibattito sul caso Vivendi-Mediaset. E’ commovente assistere alla patriottica difesa del cosiddetto sistema Italia, c’è però una domanda che nel polverone dei titoli non viene posta e non ha neppure una risposta: che sistema è?

 

 

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