Tutto chiede salvezza

Simonetta Sciandivasci

La recensione del libro di Daniele Mencarelli, Mondadori, 204 pp., 19 euro

“L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana”. Lo ha detto Gherardo Colombo all’Huffington Post.

 

Tutto il romanzo di Daniele Mencarelli è la ricerca di qualcuno che, in quel carcere minore che è il reparto psichiatrico di un ospedale dove ha ambientato la sua storia, la pensi come Colombo, o abbia quel medesimo tormento, stia dentro quel dubbio: sta a me decidere dove e come debba vivere un uomo che con intenzione o senza, con passione o senza, con consapevolezza o senza, abbia commesso un reato? Sta a me decidere la misura del bene e del male? E soprattutto: quella misura esiste? La differenza tra i due istituti, penitenziario e medico, non conta molto, e non solo perché hanno più affinità che divergenze – in questo c’è una delle evidenze, non inedite ma pur sempre sconvolgenti, che questo libro porta alla luce. La condizione che Mencarelli descrive, quella di un ventenne che negli anni Novanta viene sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio, pur molto precisa, è universale. In tutti noi c’è un tratto, un gene inapplicabile, informe, divergente, talvolta persino inintelligibile, che può starsene nascosto o sovrastarci, rincorrerci o guidarci, scombinarci sempre o scapigliarci ogni tanto.

 

La salvezza richiesta da tutto, e che alla fine del libro Mencarelli chiede “per i vivi e i morti, per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia” è l’accoglienza di quel tratto, di cui si può essere dispensatori se si è uomini come Colombo. Con una parola più immediata, e d’immensa gittata, quella salvezza è la libertà.

 

Prima di essere un romanzo sulla malattia mentale, sugli istituti psichiatrici, sulla rabbia, sulla poesia, questo è un libro sulla libertà, sul fatto che ciascuno di noi è garante e responsabile di quella altrui, su che immensa sfida sia concederla e conservarla.

  

Daniele, il protagonista, non appena arriva in ospedale e viene ricoverato, dice a un operatore sanitario: “Io non so’ cattivo, non ho mai fatto male a nessuno” (spesso Mencarelli ricorre al dialetto e forse è la sola pecca del suo lavoro, perché lo rende artificioso, sebbene a un certo punto si legga: “Parlare in italiano mi costa fatica”). Quell’operatore sanitario ha una specie di contentezza nello sguardo e sorride – “il mio sconforto lo rende felice” – e in questa scena iniziale c’è il seme del libro, quel sadismo inevitabile che s’appropria di chi vuole curarci e lo fa per mestiere o per amore, per parentela o per affinità. Come tutti o quasi tutti i ricoverati, Daniele è lì perché esagera, è incontenibile, febbrile, iroso, vasto, del tutto inadatto a contenersi. Non c’è bisogno, per impazzire, d’essere schizofrenici, di soffrire di un qualche scompenso: a volte è sufficiente essere smisurati. E’ impressionante leggere un libro così adesso che transitiamo dall’uomo misura di tutte le cose che tanti disastri ha combinato, all’uomo che misura tutte le cose per non venirne travolto, per non morire. 

   


 

Daniele Mencarelli
Tutto chiede salvezza
Mondadori, 204 pp., 19 euro