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La famiglia regressiva

Maurizio Crippa

Le domeniche a casa, i figli. Ottime cose, ma non tornano per legge

Milano. Alberto Savinio era un tipo disincantato e caustico, detestava le incrostazioni dei buoni sentimenti e dei valori borghesi, e anche per questo non ebbe esattamente successo quando nel suo Capitano Ulisse tramutò il mito nostalgico del ritorno agli affetti familiari in una sconsolata resa al perbenismo piccolo borghese. Del resto era novant’anni fa, in pieno fascismo Dio-Patria-Famiglia. Ma il fatto che qualcuno già si prendesse la libertà di denunciare il nostos, il ritorno a casa, come un non valore regressivo, roba da cui anche Ulisse alla fine scappa via, era un segno dei tempi. Di quel quieto mondo ordinato, fatto di famiglie stabili e di vuote domeniche d’ozio da onorare tra la messa e il pranzo, la passeggiata o lo stadio, non è rimasta pietra su pietra. Nemmeno sul versante domenica allo stadio. Che l’idillio possa tornare a fiorire grazie ai negozi chiusi di Di Maio lo può pensare qualche curato di campagna, ma non riescono a crederci neanche i vescovi, che pure guardano di buon occhio l’opportunità.

 

Ieri Avvenire, che in prima titolava ottimista “Buone domeniche”, ha intervistato monsignor Fabiano Longoni, responsabile dell’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro della Cei, il quale ricordava che la chiesa “da almeno trent’anni” si preoccupa della “erosione degli spazi e più ancora dei tempi di libertà e gratuità delle persone”. Sono “presìdi della nostra umanità che dobbiamo difendere”, spiegava Longoni, e non tanto per l’aspetto religioso: “La questione non riguarda solo la partecipazione alla Messa o i cristiani, ma tutti gli uomini e le famiglie… della domenica e della festa ha bisogno anche la società secolarizzata”. Nel mondo di relazioni spampanate in cui viviamo, tornare a coltivare giardini che facilitino la stabilità, la famiglia, la possibilità di farsene una, eccetera non è una cattiva idea. Perché, tutto sommato: siamo tutti liberisti, ma non è chi non veda che il futuro delle nostre società, e persino della natalità, dipende anche da altro.

 

Il problema è però che questa visione, questa preoccupazione persino positiva rischia di essere un’opzione nostalgica: il desiderio di un ritorno a casa, ma a una casa che non c’è più. E non per colpa dell’Ulisse disincantato di Savinio. Non parliamo di economia, ma di ideologia: la famiglia, così intesa, è un’opzione regressiva. Lasciamo perdere Di Maio, le sue sono solo fesserie. Ma nel consenso positivo, e non solo nel mondo cattolico, per le domeniche senza negozi c’è il senso di un rappel à l’ordre che però si appella a una situazione sociale che non c’è più e nel migliore dei casi non è ricreabile. Nel peggiore dei casi, è un pensiero di pura reazione ai fatti, e il rifiuto di affrontare i cambiamenti. Non è un caso, forse, che un altro paese in cui da quest’anno sono vietate le attività commerciali domenicali sia la Polonia. La legge era stata proposta dal sindacato Solidarnosc ed è stata apprezzata dai vescovi. 

 

Un altro caso in cui alligna il mito della famiglia regressiva, e destinato a infiammare il dibattito nei prossimi tempi, viene non dal fronte Cinque stelle ma dal fronte Lega: la riforma dell’affido condiviso. Siamo nei territori del ministro della Famiglia Fontana, c’è il sostegno di Salvini (“è prevista dal contratto di governo”). Al ddl appena presentato ha lavorato il senatore Simone Pillon, avvocato cattolico e capogruppo della Lega in commissione Giustizia. In realtà i ddl depositati in Commissione sono tre, ma quello con benedizione dell’esecutivo è a firma Lega. L’affido condiviso è un problemino complicato, su cui da tempo si pensa di intervenire. Terreno anche un po’ scivoloso, come ogni volta che la politica mette il naso nelle famiglie. Il ddl presentato da Pillon prevede un cambio di rotta che rimetta al centro la “bi-genitorialità”. Si passa dall’assegno di mantenimento, spesso un modo di “liquidare” il problema, al mantenimento diretto dei figli e soprattutto all’affido condiviso con tempi paritari, i bambini vivranno di fatto con entrambi, cioè “l’introduzione di norme volte al contrasto del grave fenomeno dell’alienazione parentale”. E’ l’idea di difendere, o reintrodurre ope legis, la famiglia biparentale anche se mamma e papà non possono più vedersi. E’ la “bigenitorialità perfetta”, – “i bambini hanno diritto di crescere con la mamma e col papà anche se separati o divorziati” – e chi siamo noi per contrastarla? Senonché, è un altro esempio di utopia regressiva, quando la realtà sono quattro milioni di genitori separati e 800 mila minori. Spesso la separazione è non riconciliabile, e l’introduzione di un “mediatore familiare” obbligatorio rischia di essere un ulteriore aggravio. Tutto a fin di bene, ma tristemente distante dalla realtà.

 

Del resto, siamo nell’epoca dei politici che si propongono come padri di famiglia. Ci facciamo molte domande su perché il “popolo”, e non per forza solo quello cattolico, si senta così attratto da un pensiero di tipo reazionario. Ci stupiamo che Steve Bannon abbia deciso di stabilirsi dalle nostre parti. Ma, appunto, è il pensiero – che da latente s’è fatto dominante – per cui sarebbe meglio se il mondo tornasse come era prima. Un pensiero legittimo, ma difficilmente i lenti ritorni a casa hanno avuto buoni risultati a livello delle società complesse. Non è questione di paventare cupi ritorni al Medioevo, anzi la tecnica di delegittimare l’altrui visione delle cose non è un granché. La scorsa settimana il New York Times ha pubblicato un lungo articolo per così dire distopico di Lynn M. Paltrow, fondatrice di National Advocates for Pregnant Women, in merito al dibattito in corso negli Stati Uniti per la nomina del giudice antiabortista Brett Kavanaugh alla Corte suprema. L’articolo si intitola “Life after Roe” e si domanda che cosa accadrebbe se la sentenza che legalizzò l’aborto dovesse essere cancellata: si immagina il ritorno a grappoli di donne e uomini nelle galere, in una visione millenaristica e punitiva probabilmente eccessiva pure in Alabama, per come la società statunitense è cambiata. Si può non essere favorevoli alla Roe vs. Wade senza voler ritornare al medioevo. Il problema non è il passato, è che non funziona, se lo scopo è il ritorno a casa. Se è prendere i voti, è un altro discorso.

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  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"