Una scena del film del 1968 Il pianeta delle scimmie (foto 20th Century-Fox/Getty Images)

Eredità genetica e culturale: la guerra spiegata con l'aiuto di Darwin

Enrico Bucci

Da un punto di vista evolutivo, la guerra è un fenomeno tipico delle specie sociali. Ma non conosciamo altri animali in cui individui dotati di capacità riproduttiva e geneticamente non imparentati rischiano la vita in questo modo

Perché possa avvenire, la guerra richiede la possibilità di formazione di gruppi sociali sufficientemente stabili; da un punto di vista evolutivo, quindi, la guerra è un fenomeno tipico delle specie sociali. Tuttavia, quando gli umani vanno in guerra, non è insolito che i campi di battaglia siano disseminati di una moltitudine di guerrieri morti. Questi guerrieri in genere erano maschi all’apice delle forze e del periodo riproduttivo che, se non fossero morti in battaglia, avrebbero potuto generare più figli. In genere, sono anche geneticamente estranei l’uno all’altro. Non conosciamo altre specie animali in cui individui dotati di capacità riproduttiva e geneticamente non imparentati rischiano la vita in questo modo, alla scala in cui questo avviene da moltissimo tempo nella specie umana.

 

Alcune specie di formiche, per fare un esempio, si impegnano in campagne di guerra contro altre formiche, con la partecipazione di migliaia di individui; ma si tratta di individui tutti sterili e tutti imparentati, per cui la loro morte non pregiudicherà la trasmissione dei loro geni, a opera degli individui riproduttori – la regina e pochi altri – che ovviamente sono tenuti lontani dalla battaglia. Gli scimpanzè combattono vere e proprie guerre pluriennali, più o meno in modo simile a quanto si immagina facessero le tribù primitive; ma anche in questo caso si tratta di individui imparentati (i maschi in particolare), che dunque possono rischiare di morire sapendo che i propri geni saranno comunque tramandati dai superstiti del proprio gruppo. 

 
Per la specie umana, le cose sono diverse. Sebbene diversi studiosi abbiano postulato modelli dell’evoluzione della guerra umana, questi modelli non spiegano adeguatamente come gli esseri umani risolvano il problema dell’azione collettiva nella guerra con una modalità evolutivamente nuova, e non nota prima della specie umana, che vede combattere insieme da centinaia a milioni di individui geneticamente non correlati, i quali rischiano di distruggere la possibilità di tramandare il proprio patrimonio genetico personale, in nome di un beneficio individuale che, se si risulterà vincitori e si sopravviverà, sarà mediamente molto minore del rischio corso, perché sarà condiviso con l’insieme di tutto il proprio gruppo, non costituito se non in frazione trascurabile da parenti.

 

Questo apparente paradosso può essere risolto considerando la co-evoluzione darwiniana dei tratti biologici e culturali tipica della nostra specie. Come per le formiche e gli scimpanzè, la coalizione all’interno del gruppo su base genetica e l’aggressività tra i gruppi possono evolvere in gruppi di grandi dimensioni (oltre 50 individui di ciascun sesso), ma questi gruppi in genere tendono rapidamente a perdere uniformità genetica proprio quando le guerre hanno successo, perché in quelle occasioni diminuisce il loro isolamento e aumenta il flusso genetico; tuttavia, la formazione di gruppi può avvenire – ed avviene largamente – anche su base culturale, anziché genetica. La trasmissione culturale dei tratti che favoriscono la guerra, originatisi in gruppi geneticamente omogenei come nelle scimmie, può mantenere i comportamenti guerreschi in gruppi di qualsiasi dimensione, e anzi gli stessi tratti culturali possono evolvere attraverso processi selettivi, proprio perché i gruppi che ne sono portatori riescono meglio a prevalere in battaglia e ad appropriarsi di un maggior numero di risorse. Questo tipo di approccio, esplorato nei più recenti studi di antropologia culturale evoluzionistica, porta quindi a una inevitabile conclusione: l’evoluzione di culture eterogenee, e di gruppi che in esse si identificano, porta alla lunga alla competizione fra culture, anziché geni, con la conseguenza che alle guerre possono partecipare gruppi geneticamente molto eterogenei e di grandissime dimensioni, proprio come si osserva nelle guerre umane.

 
Se i proponenti di simili teorie hanno ragione, la guerra umana non è solo una conseguenza del nostro essere animali sociali, in grado di coalizzarci e di coordinarci per esercitare violenza organizzata; è pure una conseguenza della veloce emersione di tradizioni difformi, le quali possono essere ancora influenzate da retaggi culturali vantaggiosi per motivare gruppi di consanguinei alle azioni guerresche, e che tuttavia continuano a sopravvivere in società gigantesche per motivi diversi – sia perché si trasmettono indipendentemente dai geni, portando a una identità culturale motivante molto ampia, sia perché le nostre società sono a loro volta suddivise in gruppi culturali distinti – ed è quindi sufficiente che sia l’élite a possedere i tratti culturali giusti per scatenare la guerra. Siamo abituati a pensare che socialità e preservazione di quella che chiamiamo “eredità culturale” siano sempre e comunque fattori positivi: lo sono, a patto di essere condivisi con tutti, e non funzionare da surrogato motivazionale dell’identità genetica per cui competere darwinianamente.
 

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