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Fine della fiction

Francesco Cundari

Si chiude una stagione politica degna di Sordi, Flaiano, Fellini. Dove i rivoluzionari hanno finito col parlare la lingua di Forlani

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E’ stato brutto finché è durato. Adesso, salvo sorprese che non vogliamo nemmeno immaginare, e che comunque ci auguriamo non ci facciano l’affronto di accadere proprio tra la consegna di questo articolo e la sua pubblicazione, possiamo finalmente riposarci. Noi, dico, che allo studio e al racconto del grottesco istituzionale – il nuovo stile che ha caratterizzato la politica italiana perlomeno dalle elezioni del 2018 in avanti – abbiamo dedicato in questi anni le nostre migliori energie, le nostre scarse competenze, il frutto più maturo del poco che bene o male ci è capitato di leggere e studiare (teatro dell’assurdo, letteratura distopica, fumetto apocalittico).

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E’ stato brutto finché è durato. Adesso, salvo sorprese che non vogliamo nemmeno immaginare, e che comunque ci auguriamo non ci facciano l’affronto di accadere proprio tra la consegna di questo articolo e la sua pubblicazione, possiamo finalmente riposarci. Noi, dico, che allo studio e al racconto del grottesco istituzionale – il nuovo stile che ha caratterizzato la politica italiana perlomeno dalle elezioni del 2018 in avanti – abbiamo dedicato in questi anni le nostre migliori energie, le nostre scarse competenze, il frutto più maturo del poco che bene o male ci è capitato di leggere e studiare (teatro dell’assurdo, letteratura distopica, fumetto apocalittico).

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E’ giusto che ora facciamo posto ad altri, a persone con studi regolari e solida preparazione alle spalle, più capaci d’interpretare i tempi nuovi, e che noi ci troviamo modi diversi per passare il tempo ed esercitare la nostra capricciosa attenzione al dettaglio (la calligrafia, gli origami, lo studio del coreano).

 

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In queste stesse pagine su cui fino a ieri sbocciavano i non-sense, in un’infinita distesa di inspiegabili assurdità, intrecciate le une alle altre come piante infestanti – un presidente del Consiglio (Giuseppe Conte) che celebra l’8 settembre del 1943 dicendosi intenzionato a “ricreare nei cittadini la stessa fiducia verso il futuro che allora animava i nostri genitori”; un sottosegretario alle Infrastrutture (Armando Siri) che in diretta televisiva nega ripetutamente che Danilo Toninelli sia ministro, essendo in quel momento Danilo Toninelli il ministro delle Infrastrutture; un sottosegretario alla Difesa (Angelo Tofalo) che si fa immortalare mentre si lancia col paracadute, dopo essersi fatto riprendere con mimetica e mitragliatore, una volta per “sapere cosa si prova” e l’altra per “dare un segnale di forte vicinanza” ai professionisti della sicurezza, “mettendo la mia stessa vita in mano a chi ogni giorno difende gli interessi nazionali” – presto, molto presto, al posto di tutto ciò non ci saranno che freddi numeri, argomentazioni razionali, discussioni di merito. Che noia.

 

Agli psicanalisti del potere, agli appassionati esegeti della politica-spettacolo, agli esperti di letteratura, costume e società, dovranno dunque subentrare gli economisti, i giuristi, i politologi. Forse non sarà la fine della storia. Di sicuro è la fine della fiction.

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Certo sarebbe ingiusto datare al 2018, e attribuire dunque ai soli populisti, l’inizio di quel processo di crescente fictionalizzazione della politica, cioè la sua autotrasformazione in docudrama, o per meglio dire in docufarsa, che ha radici molto più antiche. Come dimenticare, per fare un solo esempio, i tempi gloriosi in cui il Giornale intervistava Henry Winkler – l’intramontabile Fonzie di Happy Days – su Matteo Renzi, che lo stesso intervistato chiariva subito di non sapere chi fosse, perché qualche tempo prima l’allora sindaco di Firenze si era presentato da Amici di Maria de Filippi con un giubbotto di pelle nera (di qui la trovata di Beppe Grillo, quel venerabile padre del socialismo già noto per la definizione “Pdioti”, di ribattezzarlo “Renzie”).

 

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Non si tratta nemmeno di fare gli snob, o peggio il dolente erudito, incapace di tollerare le altrui inadeguatezze perché troppo somiglianti alle proprie.

 

Il fatto è che ogni scienza ha le sue categorie e i suoi strumenti, corrispondenti all’oggetto di studio. E così come non si può osservare un batterio con il binocolo, misurare un vestito con il termometro o analizzare un discorso di Danilo Toninelli secondo il principio di non contraddizione, per la stessa ragione oggi non si possono utilizzare le categorie con cui abbiamo raccontato le stagioni precedenti per spiegare la formazione della nuova maggioranza, in cui ci auguriamo di vedere presto abbracciati Dibba, Renzie e il Caimano, proprio come in un gran finale di Happy Days.

 

Ogni epoca ha le sue coordinate linguistiche, psicologiche e culturali, e richiede all’onesto studioso specializzazioni diverse. Non è necessaria una laurea in Storia, ad esempio, per commentare un presidente del Consiglio che parla dell’8 settembre come dell’entusiasmante stagione in cui si gettarono i semi del miracolo economico, ma è indispensabile avere visto almeno quei trenta secondi di “Tutti a casa” in cui il tenente Alberto Sordi scandisce al telefono: “Signor colonnello… accade una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani”.

 

   

 

Come avremmo potuto raccontare le manifestazioni di Forza Nuova e di altri gruppi neofascisti contro la “dittatura sanitaria” (e pure di questo avevamo avuto un prequel nella stagione renziana, guardando i loro manifesti per la campagna referendaria del 2016 con lo slogan: “No alla deriva autoritaria”), senza aver visto almeno cinque minuti di “Vogliamo i colonnelli”?

 

Semplicemente non avremmo potuto. Ci sarebbero mancate le parole, in quella come in mille altre occasioni, dalla difesa delle prerogative parlamentari pronunciata da Matteo Salvini, con ancora indosso la mascherina di Trump, alla crisi di governo interrotta dall’incredibile Leopolda saudita organizzata nel frattempo dallo sceicco bianco di Rignano. Per orientarsi qui non servono tranquillanti o terapie, ci vogliono Fellini e Flaiano.

 

Poi naturalmente si può discutere di tutto, anche delle linee di politica internazionale illustrate da Conte, l’uomo portato a Palazzo Chigi da quelli che non ne potevano più della sottomissione dell’Italia ai diktat di Angela Merkel, nel video di “Piazza Pulita” in cui lo si vedeva incalzare la cancelliera tedesca con un virile “Angela, non ti preoccupare, sono molto determinato”, davanti a un succo di frutta. E lo si può fare tenendo nel giusto conto il parere di tanti autorevoli esperti, i quali per tempo avevano ravvisato in lui un’accresciuta consapevolezza dei propri mezzi, non disgiunta da una sensibile crescita di standing, ben evidenti nel modo in cui descriveva la sua leadership (“la mia forza è che se io dico ‘ora la smettiamo’ loro non litigano”), o nell’elegante nonchalance con cui si faceva beffe del suo stesso partito, dando di gomito alla cancelliera: “Nella campagna elettorale ora ci sono molti nel partito che dicono ‘il nostro amico è la Germania, e quindi dobbiamo fare la campagna contro la Francia!’”. E giù a ridere, come se quei fregnoni di cui sghignazzava non fossero gli stessi che lo avevano assunto, contrattualizzato e piazzato lì, a discutere delle sorti dell’Italia nei vertici internazionali.

 

E’ giusto tener conto delle sofisticate analisi politiche e geopolitiche di tutti, ma è difficile negare che per interpretare correttamente un simile scambio, più che con i dialoghi di Davos, occorra una certa familiarità con i dialoghi della commedia all’italiana. Perché è qualcosa che ricorda – nelle parole non meno che nella mimica facciale del suo straordinario interprete: nel mezzo sorriso che vorrebbe essere ironico, nello sguardo obliquo che cerca la complicità dell’interlocutore – il repertorio del miglior Sordi, a cui mancherebbe soltanto il giusto incipit: “Angela, my darling…”.

 

 

 

Queste sono state fino a oggi le competenze necessarie, per chi voleva decodificare il linguaggio della politica italiana. Ma è chiaro che oggi stiamo entrando in un’altra fase, con un altro registro e altre complessità, ora che anche Paola Taverna e Roberto Fico levano alti e severi moniti sui rischi di una “crisi al buio”. Ora che pure Manlio Di Stefano – quello che da sottosegretario agli Esteri ravvisava nel presidente francese Emmanuel Macron una “sindrome del pene piccolo” – dichiara compito che “serve una maggioranza parlamentare stabile, che condivida un percorso politico e sostenga quindi un governo di fine legislatura nell’interesse del paese”. Ora che persino Carlo Sibilia – uno di quelli (perché ce n’è più d’uno, nel Movimento 5 stelle) che non crede allo sbarco dell’uomo sulla luna – comincia a parlare come Arnaldo Forlani, e twitta: “Sono contento che si stiano creando le condizioni migliori per poter interloquire al meglio e senza pregiudizi con Draghi al fine di formare un governo politico,  nel solco della responsabilità indicata dal presidente della Repubblica” (giuro che è vera).

 

Ebbene, proprio ora possiamo dirlo: è stato brutto finché è durato, certamente, e angoscioso, ma adesso che il mondo sembra almeno parzialmente rientrato nei cardini, anzitutto con l’uscita di Donald Trump dalla Casa Bianca, dobbiamo ammettere che è stato pure parecchio divertente.

 

La legislatura cominciata con la richiesta di impeachment per Sergio Mattarella, avanzata da Luigi Di Maio, che lo accusava di aver impedito la nomina di Paolo Savona al ministero dell’Economia per conto dei poteri forti di Bruxelles, si chiude con lo stesso Di Maio che invita il Movimento 5 stelle ad ascoltare senza pregiudizi le parole dell’ex presidente della Bce, perché “siamo la prima forza politica in Parlamento e il rispetto istituzionale viene prima di tutto”.

 

Prima di tutto, certamente. Ma dopo un’inesauribile serie di demenziali rivoluzioni abortite e insurrezioni farlocche, fortunatamente fallite anche quelle. Dall’assalto al Parlamento di Strasburgo con Alessandro Di Battista alle riunioni con i gilè gialli durante le devastazioni di Parigi, fino alla clamorosa svolta europeista. Dalla tradizionale linea trumpiana, ben rappresentata dalle dichiarazioni del Jake Angeli di Roma Nord, detto Dibba, sul fatto che “in politica estera Trump si sta comportando meglio di tutti i presidenti Usa precedenti, incluso quel golpista di Obama”, alla densa lettera a Repubblica in cui Di Maio, intervenendo nel dibattito sulla “nuova via progressista”, sottolineava il “valore del multilateralismo”. Senza dimenticare la politica interna, a cominciare dalle campagne di odio contro il Pd, come quella su Bibbiano, con lo stesso Di Maio che nel luglio 2019 scandisce in un video: “Col partito che in Emilia Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli io non voglio avere nulla a che fare” e il 5 settembre 2019 giura da ministro degli Esteri in un governo con il Pd.

 

  

 

E’ anche questione di ritmo, inevitabilmente. La frenesia della politica in diretta social impone una certa accelerazione ai pensieri e al modo di esprimersi, costringe a semplificare e radicalizzare, ad andare dritti al punto anche quando non si ha chiarissimo in mente quale sia, con tutti gli equivoci e gli intoppi conseguenti, e poi le marce indietro, le rettifiche, il casino.

 

Ora si impone un ritmo diverso: dalla tecno si passa alla musica da camera. O se volete, in termini televisivi, dalla “Gabbia” si torna a “Tribuna politica”. E a proposito di “Gabbia”, bisogna avere un cuore di pietra per non spendere una parola su Gianluigi Paragone, l’uomo più rappresentativo dell’era gialloverde, l’ex leghista diventato grillino che con la sua trasmissione aveva anticipato l’intero repertorio del populismo sovranista – le campagne contro la casta e contro Soros, le deliranti teorie sulla “sostituzione etnica”, ma soprattutto contro la moneta unica – per poi mettersi finalmente in proprio. Fondare il suo partito duro e puro, Italexit, per l’uscita dall’euro. E presentarlo un attimo prima che l’Europa annunci un piano di aiuti per l’Italia da 209 miliardi. Quando si dice il tempismo.

 

Povero Paragone. Per lui obiettivamente non si mette bene, con l’aria che tira dal momento in cui Mattarella ha pronunciato la parola “Draghi” (neanche avesse detto veramente “dracarys”). Persino Matteo Salvini sembra diventato quasi un europeista: si è messo pure la cravatta, e sono giorni che sui social network non si mangia nemmeno un supplì. Anche Alberto Bagnai, adesso, rilascia interviste a favore di Draghi, spiegando che “andremo d’accordo, è pragmatico come noi” (giuro che è vera anche questa).

 

E’ chiaro che con Draghi si chiude, almeno per un po’, la stagione dei presidenti del Consiglio costantemente in diretta facebook (stagione inaugurata da Renzi, per la verità, con l’atroce invenzione del “Matteo risponde”), e non solo perché Draghi non ha account social (glieli apriranno, non v’illudete). Si chiude, o quanto meno si accantona, la stagione dei leader politici al tempo stesso anchorman televisivi e influencer social, in cui i follower valgono più delle tessere e i sondaggi pesano più dei voti.

 

Se infatti il governo Draghi partirà, è evidente che di qui al 2023 l’unica cosa che conterà davvero saranno i numeri in Parlamento. Il che significa che Lorenzo Guerini conterà molto più di Goffredo Bettini, e forse pure di Renzi, anche se fa un centesimo delle loro interviste, e i talk show sicuramente non se lo contendono.

 

Se tutto va bene, si capisce che comincia una stagione molto meno spumeggiante e molto più faticosa, che richiederà anche osservatori capaci di approfondire i problemi politici senza pigrizie e senza pregiudizi, capaci di riconoscere le ragioni degli altri anche quando non collimano con le proprie, con umiltà e pazienza.

 

Non si può escludere che qualcuno in giro ce ne sia ancora. Io penso che mi darò agli origami.

 

 

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