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Natale e Recovery. Così Conte prepara la ritirata tattica, confidando nel Quirinale

Valerio Valentini

Il premier, accerchiato in Parlamento, decide di concedere modifiche sulla governance del Recovery e sulle strette durante le festività. Ma la retromarcia precipitosa rischia di scontentare Franceschini e Orlando. I mugugni di Di Maio. Zinga fa sponda con Renzi, che esulta

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Che la resistenza a oltranza stia iniziando a cedere lo si capisce a ora di pranzo. E appare subito chiaro, dalla confusione in cui matura, che il contrordine sia stato dato in modo un poco scomposto. Perché ai cronisti che s’informano con lo staff del premier, viene dapprima detto che no, di allentare le strette nei giorni di festa tra Natale e Capodanno non se ne parla neppure (“E che, ce lo rimangiamo?”), salvo poi certificare il ripensamento mezz’ora più tardi. Del resto Giuseppe Conte, che nel frattempo è a Bruxelles a districarsi tra Merkel e Orbán, sa che la strettoia parlamentare rischierebbe comunque di obbligarlo alla resa nel giro di qualche giorno.

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Che la resistenza a oltranza stia iniziando a cedere lo si capisce a ora di pranzo. E appare subito chiaro, dalla confusione in cui matura, che il contrordine sia stato dato in modo un poco scomposto. Perché ai cronisti che s’informano con lo staff del premier, viene dapprima detto che no, di allentare le strette nei giorni di festa tra Natale e Capodanno non se ne parla neppure (“E che, ce lo rimangiamo?”), salvo poi certificare il ripensamento mezz’ora più tardi. Del resto Giuseppe Conte, che nel frattempo è a Bruxelles a districarsi tra Merkel e Orbán, sa che la strettoia parlamentare rischierebbe comunque di obbligarlo alla resa nel giro di qualche giorno.

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Mercoledì, durante il dibattito in Aula, Andrea Marcucci s’è avvicinato a Giuseppe Conte e glielo ha detto con chiarezza: “Noi qui andiamo avanti, e i numeri sono dalla nostra”, ha scandito il capogruppo del Pd all’orecchio del premier. E infatti ieri mattina, l’asse trasversale s’è concretizzato nella conferenza dei capigruppo: tutti, al netto della contrarietà di Leu e della  titubanza del M5s, vogliono concedere la libertà di spostamento tra comuni limitrofi nei giorni di festa. E a quel punto Conte alza le mani.

 

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Segnale che trascende la questione specifica. “La diga inizia a cedere, ha capito che contro la volontà delle Camere non può tirare dritto”, esulta coi suoi colleghi il renziano Davide Faraone. E lo fa, ovviamente, pensando al gioco più grande: quello che riguarda la governance del Recovery plan. Anche su quella,  la tentazione della fermezza va svanendo. Lo si è capito mercoledì sera: quando un paio dei suoi ministri più fedeli, di fronte alle sferzate di Matteo Renzi,  esortavano Conte a non indietreggiare. “Ha detto un sacco di balle, quello. Ha parlato di 128 pagine inviate alle due di notte, e invece il decreto consta di appena sette fogli”. Insomma, la solita storia dei cortigiani più realisti del re. Al quale, però, più ancora che gli attacchi di Renzi, devono aver inquietato la mancata difesa da parte del Pd, i mugugni di Luigi Di Maio, e perfino i rimescolamenti nel centrodestra, in quel corpaccione di responsabili che ha smesso di affannarsi per farsi trovare a disposizione dell’avvocato del popolo. E così i totiani guidati da Romani e Quagliariello non cedevano alle mezze lusinghe dei ministri Gualtieri e Amendola, e di fatto si accodavano al resto del centrodestra. Dai cui scranni Salvini si alzava per blandire Renzi, mostrandosi pronto  a un dialogo nuovo, di larghe intese. E insomma s’è guardato intorno, Conte, e s’è trovato solo. La svolta è iniziata lì.

 

Sennonché anche la ritirata, ora, rischia di avvenire non proprio in buon ordine. E così, costretto dai senatori del Pd a cedere sul Natale, il premier ha scontentato Dario Franceschini, che proprio contro Marcucci aveva difeso la linea del rigore, giorni fa. Perfino il ministro  Federico D’Incà, contianissimo tra i contiani, s’è trovato spiazzato di fronte all’abiura del suo “Giuseppe”: perché il M5s, insieme a Leu, ieri mattina stava intanto guerreggiando al Senato sul decreto Ristori, rintuzzando le imboscate di Italia viva e Pd triangolando con Palazzo Chigi. E nel gioco incrociato di veti e forzature, tutto è sembrato vacillare. “Ma come? Se non ci copre sul Natale, Conte non ci copre neppure sul Ristori”, sono sbottati i bersaniani.

 

E lo stesso vale sul Recovery. Perché, dopo che i silenzi di Zingaretti e Di Maio si sono trasformati in un mezzo sostegno del Nazareno e del ministro degli Esteri alle critiche di Renzi sul rischio di commissariamento del governo, Conte ha deciso che il nuovo passaggio in Cdm servirà ad annunciare una  revisione del decreto che non si limiti a piccoli aggiustamenti, e che verrà comunque offerta al vaglio del Parlamento. Solo che nel farlo, scontenta quella parte di Pd che aveva benedetto la task force: quella, per intendersi, che fa capo al ministro  Provenzano e al vicesegretario  Orlando, il quale  da Conte s’è già visto mortificare due settimane fa, quando il premier s’era immolato sull’altare di Fabrizio Salini, l’ad della Rai inviso al Nazareno. “La verità è che noi ci siamo prestati a essere i suoi pretoriani perché questo esigevano gli eventi, mesi fa. E il premier ci ha trattato come carne da cannone”, dice, dopo l’ennesima settimana passata ad addomesticare le isterie del grillismo, il dem Enrico Borghi, che da membro del Copasir non a caso sottolinea anche le sgrammaticature sulla questione dei Servizi. Che hanno a che vedere con la Fondazione per la cybersicurezza ma anche e soprattutto,  a giudicare dalle frecciate di Renzi, all’autorità delegata che Conte si ostina a tenere per sé.

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La sensazione è insomma che alla necessità della ritirata Conte si sia convinto quando gli è parsa l’unica alternativa alla resa, e ora le correzioni in corso d’opera rischiano di essere delle toppe peggiori dei buchi, perché finiscono con lo scontentare troppe persone, perfino tra i suoi sostenitori. Per ora resta la protezione più alta, quella del Quirinale. Ma forse neppure quella è sempiterna.

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