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GranMilano

Il mondo guarda il calcio di Milano, che forse dovrà fuggire

Maurizio Crippa

L'Inter attende la finale di Champions League, il Milan è in un terremoto emotivo e societario che ha scosso dalle fondamenta del tifo. E il capoluogo rischia di avere due squadre che giocano fuori dal comune

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Mentre fanno lo slalom tra le bombe d’acqua, mentre fanno lo slalom (i più attenti di loro) per schivare la schifezza morbosa degli aggiornamenti sull’omicidio di Senago, che da piazza del Duomo dista solo una ventina di chilometri, in questi giorni i milanesi hanno un unico argomento che non possono schivare, di riffa o di raffa, volentieri o controvoglia: il calcio. Troppo vicina per una metà del cielo ambrosiano è la notte di Istanbul, la finale di Champions di sabato sera. Troppo ravvicinato, per l’altra metà del cielo, il terremoto emotivo e societario che ha scosso dalle fondamenta il pianeta Milan.

Solo domenica scorsa c’è stato il grande abbraccio identitario al Meazza per Ibra, trasformato da ex campione acciaccato in nuovo dio del pantheon rossonero. E nemmeno ventiquattr’ore dopo l’addio, o licenziamento, della bandiera delle bandiere del Milan berlusconiano, Paolo Maldini, direttore tecnico nel cuore dei giocatori e dei tifosi (che non hanno per nulla apprezzato, e per digerire ci vorrà almeno tutta l’estate). Ciò che è accaduto in casa rossonera, con il patron americano Gerry Cardinale che ragiona solo di business e di business plan e dà il benservito alle bandire in cambio di un calcio basato sugli “algoritmi”, è il segno di un cambio d’epoca che vale per tutti.

La cosa particolare è il momento, e non soltanto perché c’è l’altra squadra di Milano che si sta per giocare una fetta di paradiso: è che in questo momento, anche grazie a quella finale, l’attenzione mediatica mondiale (parliamo di miliardi di appassionati, e di migliaia e migliaia di possibili investitori) è concentrata sulla città della Madonnina. E questo è un bene, ovviamente. Del resto l’amministratore delegato di Lega Calcio, Luigi De Siervo, ha appena annunciato che in futuro per l’estero il nostro campionato si chiamerà “Serie A Made in Italy”. E non certo per un omaggio ai gusti del governo sovranista, ma perché, ha spiegato, il nostro calcio ha un gap d’immagine ed economico da recuperare sugli altri campionati maggiori. Insomma tutto gira attorno al calcio-business, e un brand come il football di Milano brilla negli occhi di mezzo mondo. Tutto bene? No, purtroppo.

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Il sindaco Beppe Sala qualche giorno fa ha provato a riportare tutti (istituzioni comprese) coi piedi per terra: “Se c’è questo vincolo della Sovrintendenza su San Siro è un grandissimo problema”, ha detto. “Noi al momento siamo qui fermi in attesa, ma in un paio di mesi si attende una risposta”. Se ci fosse un vicolo, ha spiegato, sarebbe più difficile non solo ammodernare il Meazza ma anche costruire lì vicino un nuovo impianto. E siccome l’idea del Milan di costruirsi uno stadio suo all’ex ippodromo della Maura è morta prima di nascere (qui comanda il Parco Sud, signora mia) sono rispuntate vecchie e nuove idee di trasferimento. Dal Milan, l’ultima è quella di traslocare a San Donato, in un’area tra Rogoredo e l’autostrada, ben servita da metropolitana e tangenziale. L’Inter che farebbe? Il paradosso di una Milano ai vertici del calcio mondiale, ma senza più squadre che giocano in città, può trasformarsi in un incubo. Un incubo molto costoso.

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