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STORIE DI GENIO ITALIANO / 5

Lavorare in carcere onorando la Costituzione. L’idea di Nicola Boscoletto al Due Palazzi di Padova

Michele Brambilla

Contro la politica miope, la riabilitazione. La Cooperativa Giotto dà un'occupazione a cento persone in carcere, che guadagnano e si pagano da vivere. Ma la strada è ancora lunga

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All’alba del 14 giugno 1994 il boss della Mala del Brenta Felice Maniero detto “Faccia d’angelo”, allora quarantenne, evade dal carcere di Padova, passeggiando praticamente indisturbato e scortato da una decina di finti poliziotti e carabinieri. È un’evasione clamorosa perché il Due Palazzi di Padova è, o meglio dovrebbe essere, un carcere di massima sicurezza. Maniero ha corrotto un paio di guardie carcerarie, ma c’è perfino chi ipotizza – talmente grossa fu quella faccenda – la collaborazione dei servizi segreti. Per quale motivo non si sa, ma in ogni cosa che non quadra in Italia si tirano in ballo i servizi segreti. Amen.

 

Oggi il carcere Due Palazzi di Padova è, o dovrebbe essere, quasi un carcere modello. E per merito soprattutto di un signore padovano che si chiama Nicola Boscoletto, 60 anni il prossimo febbraio. Un italiano che si è messo in testa un’idea meravigliosa: cercare di fare una cosa che dovrebbe essere normale, cioè applicare la Costituzione della Repubblica italiana, laddove al terzo comma dell’articolo 27 stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Belle parole di cui molti si riempiono la bocca ma che pochi cercano di mettere in pratica.

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Oggi, all’inizio di uno di quei corridoi che Maniero percorse indisturbato e protetto da chissà chi, c’è una scritta: “Fatti non foste a viver come bruti”. L’hanno fatta mettere Nicola Boscoletto e i suoi collaboratori della Cooperativa Giotto, di cui Boscoletto è presidente. L’hanno fatta mettere per smentire quell’altra scritta (non realmente esposta, ma reale nei fatti) che sta invece all’ingresso di ogni carcere italiano: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”.

 

Nelle carceri del nostro paese, infatti, tutto è organizzato affinché il detenuto lasci ogni speranza, e marcisca in cella. Nella quale sta rinchiuso 22 ore al giorno. Due sole sono le ore d’aria: passate in cortili spesso di pochi metri quadrati. Anche i pasti vengono consumati in cella: non pensate alle tavolate in cui i detenuti mangiano tutti insieme, è roba da film americani, non da prigioni italiane (a Padova, invece, alcuni mangiano davvero tutti insieme, per merito appunto di Boscoletto e i suoi: ma questo lo spiegheremo più avanti).

 

In alcune carceri – è vero – si organizzano lodevoli iniziative per alleviare le pene, e quando diciamo pene parliamo delle pene accessorie, supplementari, vendicative e spesso sadiche che subiscono i detenuti italiani: e cioè appunto le condizioni di vita in cella. Troppo spesso si dimentica, infatti – e sia detto a scanso di equivoche accuse di buonismo nei confronti di chi scrive – che chi commette un reato certo che deve pagare, certo che deve essere punito, ma la punizione consiste già nella privazione della libertà. Star chiusi dentro è già una pena. Star chiusi “come bruti” è invece un qualcosa che incattivisce e che fa male a tutti, non solo ai detenuti.

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Dunque dicevamo che in alcune carceri, è vero, si organizza qualcosa di lodevole e bello: spettacoli teatrali, campionati di calcio, laboratori artigianali. Buone cose. Ma l’idea che si è messo in testa (e ha realizzato) Boscoletto è una storia molto diversa. Far lavorare i detenuti in carcere. Farli lavorare davvero: non far fare loro quei lavoretti tipo pulizie interne che, con tutto il rispetto, servono solo a far passare il tempo. Far lavorare davvero: e cioè assunti in regola da un’azienda vera, un’azienda che non fa beneficenza ma insegue giustamente un utile d’esercizio, una possibilità di stare sul mercato. Assunti in regola e quindi pagati con stipendio uguale a quello dei lavoratori “che stanno fuori”; e quindi così anche loro, i detenuti, pagano le tasse. Ma non solo: si pagano pure vitto e alloggio in carcere, e quindi per lo stato alla fine il saldo è attivo, e anche un detenuto non diventa un costo. Ma non solo: così i carcerati mandano anche dei soldi a casa e hanno modo di sentirsi utili; hanno modo di tenere, con i familiari, un rapporto quasi (quasi) “normale”.

 

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“Tutto cominciò per caso”, racconta Boscoletto, “nel 1986, quando un gruppo di neolaureati in Scienze agrarie e forestali creò la Cooperativa Giotto. Dopo un po’ prendemmo un lavoro per la manutenzione dei giardinetti interni del carcere Due Palazzi. Nel 1991 organizzammo un corso di giardinaggio per i detenuti. Nel 2001, grazie alla legge Smuraglia, avviammo la prima attività di lavoro vero all’interno del carcere: era un laboratorio in cui facevamo dei manichini di cartapesta”.

 

E da lì tutto si è moltiplicato. Nel 2003 due cooperative per il servizio mensa. Nel 2004 la Giotto ottiene la gestione dell’erogazione dei pasti ai detenuti, e soprattutto nasce la Pasticceria Giotto, ormai celeberrima, sia perché è la più importante pasticceria italiana all’interno di un carcere, sia perché fa cose buonissimissime: del panettone, per dire, è ghiotto Papa Ratzinger.

 

“Cominciammo così”, racconta Boscoletto, “ad attrarre aziende venete, a convincerle a portare alcuni dei loro reparti all’interno del Due Palazzi. Le Valigerie Roncato. I gioielli della Morellato. I call center. I laboratori per la digitalizzazione dei documenti cartacei. L’assemblaggio di pen drive per la firma digitale. Il montaggio di biciclette per aziende come Bottecchia, Fondriest, Torpado”.

 

E naturalmente i teorici del “bisogna buttare via la chiave” e del “devono marcire in galera” storcono il naso, dicono che i galeotti, maledetti loro, portano via il posto di lavoro agli onesti, soprattutto agli italiani onesti. Ma non è così. Le sunnominate aziende non hanno tolto un solo posto di lavoro a chi sta fuori, e molte altre hanno semplicemente riportato in Italia lavorazioni che avevano “delocalizzato”, come si usava dire, soprattutto nei paesi dell’est Europa. E badate che tutto questo non è fatto solo per astratto spirito di carità. È fatto per vero spirito di carità: il quale, per essere vero, deve – deve! – inseguire anche un profitto economico. Primo, perché altrimenti chi intraprende un’attività salta presto per aria e non può più dar lavoro a nessuno. Secondo, perché i carcerati non devono pensare che lavorano perché qualcuno ha pietà di loro: devono sentirsi utili davvero, utili e responsabili del buon andamento della propria azienda. Altrimenti che rieducazione è.

 

E così, la Giotto oggi dà da lavorare a 620 persone, di cui 100 in carcere, 345 fuori e normodotati, gli altri fuori e “svantaggiati”. “Gli svantaggiati”, spiega Boscoletto, “sono persone con qualche handicap fisico o psichico, ma anche tanti nuovi disagiati. Vittime della pandemia; gente che ha perso il lavoro; donne che si vorrebbero separare ma non possono perché non sono economicamente autosufficienti e non hanno un’occupazione; persone che soffrono di depressione; nuovi poveri”. Ecco, la Giotto aiuta tutte queste persone che hanno bisogno facendo impresa e guardando ai conti. L’anno scorso il fatturato è stato di 13,5 milioni di euro.

 

Ma torniamo al Due Palazzi di Padova. Oggi, fra i reparti aperti gli anni scorsi e quelli nuovi ci sono: la pasticceria Giotto e i call center per la sanità e per i servizi digitali di aziende e privati cittadini, l’assemblaggio della Valigeria Roncato, laboratori di scarpe di alta moda, fabbricazione di componenti per auto e moto (anche per la Ferrari e la Ducati) e per l’edilizia (i famosi tasselli Fischer con i quali ciascuno di noi avrà piantato qualcosa in una parete di casa). Alla Giotto si sono aggiunte, all’interno del carcere padovano, altre due cooperative, la Work Crossing e L’Altra Città. In totale, all’interno del Due Palazzi lavorano 150 detenuti.

 

“Ma purtroppo”, dice Boscoletto, “a volte la nostra sembra una battaglia contro i mulini a vento. Dai vari ministeri e governi che si sono succeduti abbiamo avuto solo proclami, ma niente di concreto. Anzi, nel corso del tempo le cose sono peggiorate. Dieci anni fa, su 56.000 detenuti in tutta Italia, lavoravano in più di mille. Oggi, sempre su 56.000 detenuti, nelle 189 carceri italiane ce ne sono solo 6-700 con un lavoro vero.

 

“Il fatto è che dei carcerati non importa niente a nessuno. Tutti pensano: tanto quelli sono delinquenti, ben gli sta. Non sanno che l’80 per cento dei detenuti sono persone plurisvantaggiate: per contesti familiari spaventosi, per alcolismo, per droga, per ludopatia. Almeno i due terzi dei carcerati dovrebbero stare in comunità di recupero, non in cella: dove – abbandonati a se stessi – si abbrutiscono, si ammalano, diventano farmacodipendenti.

 

“Pochi sanno quanto davvero il carcere, rispetto a qualche tempo fa, abbia cambiato volto. Oggi, su 56.000 detenuti, 17.000 sono extracomunitari. Persone che sono riuscite a entrare in Italia vive: ma che non hanno avuto possibilità di integrazione. Moltissimi hanno patologie psichiatriche. Solo il 5 per cento era già delinquente prima di venire in Italia”.

 

Ma appunto, la gente che sta fuori pensa che chi sta dentro è un problema che non li riguarda. “E invece li riguarda eccome. E non lo dico solo per un fatto di umanità e di responsabilità, cose che a molti non fregano nulla. Lo dico anche in termini di quella sicurezza di cui tanti politici si riempiono la bocca, invocando pene più alte (che non servono a niente) e l’esercito nelle città (idem).

 

“Allora, cerco di spiegarmi. Il detenuto che passa gli anni a marcire in carcere, non solo non viene rieducato, ma accumula un risentimento che lo convince di non essere colpevole di quello che ha fatto, ma vittima di uno stato che lo maltratta. E così, quando esce, nessuno lo prende a lavorare, tutti lo schivano e lui, arrabbiato e disperato com’è, torna immancabilmente a delinquere.

 

La recidiva di chi esce dal carcere, secondo l’ultimo studio che purtroppo è di dieci anni fa, è del 70 per cento. Ma si tratta di una recidiva ufficiale, che tiene conto solo dei reati scoperti: se si calcolassero tutti i reati effettivamente compiuti, sarebbe superiore al 90 per cento. Bene: per quelli che in carcere hanno avuto e imparato un lavoro vero, e che quindi quando escono conservano il posto, la recidiva è dell’1-2 per cento. Ecco perché le condizioni di vita e di lavoro in carcere riguardano anche coloro che stanno fuori, indifferenti, ma preoccupati che non gli entri un ladro in casa. La delinquenza che li spaventa tanto va combattuta soprattutto dentro le carceri”.

 

E tra l’altro, davvero qualcosa di straordinario accade, con il lavoro, sola cosa che può dare dignità e senso di compimento. Ho girato per i reparti del Due Palazzi, ho visto laboratori con seghe, coltelli, cacciaviti, martelli: eppure non è mai successo niente. E chi ci lavora dentro è gente che deve scontare almeno una ventina d’anni per reati come omicidi, tentati omicidi, rapine, spaccio. Ho anche pranzato, un paio di volte, con tutti questi detenuti: e davvero quando si conoscono le persone, crollano tanti nostri pregiudizi.

 

“Eppure”, conclude Boscoletto, “da dieci anni siamo in caduta libera. Proclami, protocolli e tentate riforme che hanno prodotto solo danni. Il ministero ha approvato protocolli con le aziende per inserire diecimila detenuti nel lavoro in carcere: diecimila che sono solo virtuali. Per dire: è da cinque anni che chiediamo cento detenuti da inserire nel lavoro. Il posto per loro è pronto. Risposte? Zero”.

 

Ed ecco perché applicare un articolo della Costituzione, e cioè fare una cosa normale, diventa una sfida titanica: “Non vogliono. È un sistema fatto per alimentare se stesso. Nulla deve cambiare. In Italia ci sono 56.000 detenuti e almeno il doppio, 112.000, che parlano di detenuti nei convegni”.


 

Per la serie “Storie di genio italiano” di Michele Brambilla abbiamo pubblicato in precedenza le interviste a Giampaolo Dallara (3 ottobre), Gianluca Falleti (17 ottobre), Claudio Lucchese (30 novembre) e Franco Stefani (5 dicembre).

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