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Dentro la crisi

Mps, un’inchiesta andata a Monte

Stefano Cingolani

I teoremi, le condanne in primo grado, poi le assoluzioni in appello. Il circo mediatico-giudiziario ha costruito un gran castello di carte e l’ha usato, dopo le avventure finanziarie, per affondare il colosso bancario di Siena

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"Esiste ancora un giudice a Berlino”. Una volta ascoltata la sentenza che assolve Giuseppe Mussari e i vertici del Monte dei Paschi di Siena, il professor Tullio Padovani, accademico dei Lincei, avvocato difensore insieme a Fabio Pisillo e Francesco Marenghi, non può fare a meno di citare la frase attribuita a Bertolt Brecht. In effetti, esistono giudici alla Corte d’appello di Milano che il 6 maggio scorso hanno diradato il fumus persecutionis. Ma ci vorrà ancora tempo prima di raccontare per bene questo gioco di scatole cinesi ognuna delle quali nasconde un teorema che alimenta la campagna populista. Il processo, nato a Siena, riguardava le operazioni sui derivati Santorini e Alexandria, sul prestito ibrido Fresh e sulla cartolarizzazione Chianti Classico. L’ex presidente Mussari era stato condannato in primo grado a 7 anni e sei mesi; Antonio Vigni, ex direttore generale, a 7 anni e 3 mesi; Gianluca Baldassarri, responsabile dell’area finanziaria, a 4 anni e 8 mesi. Colpiti anche i manager della Nomura e della Deutsche Bank, tutti imputati nel procedimento su una catena di operazioni finanziarie che, dal dicembre 2008 al settembre 2012, sarebbero servite a occultare perdite per due miliardi di euro causate dall’acquisto di Antonveneta. Per la corte milanese su diversi capi “le condotte si sono estinte per prescrizione”, per altri “il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”. Mussari si è detto grato agli avvocati, ma si tiene lontano dai riflettori: “Ho scelto di difendermi solo e soltanto dinanzi al mio giudice naturale”, ha spiegato dopo la clamorosa assoluzione.

 

La sentenza manda a monte (scusate il bisticcio) le accuse e per capirne le implicazioni conviene cominciare dall’inizio. Che cos’è il Montepaschi? Fin dalla sua nascita nel 1472 quando gli furono conferiti gli affitti dei pascoli (i paschi) per finanziare le imprese dei senesi, il Monte è considerato un bene collettivo, quindi chi governa la collettività decide il suo destino. Tanto che, quando Giuliano Amato nel 1991 avvia le privatizzazioni e la legge istituisce le Fondazioni imponendo loro di non detenere la maggioranza della loro banca di riferimento, si fa un’eccezione per Mps. Con la quotazione in borsa nel 1999 la banca comincia a espandersi fuori dall’antico confine, compra la Banca del Salento grazie alla quale entra anche nel nuovo universo online; lo stratega dell’operazione, Vincenzo De Bustis, diventa direttore generale e con lui sbarcano a Siena prodotti finanziari più sofisticati, con l’allure di Wall Street e nomi degni di Hollywood, da Myway a 4You – come gli yuppie scrivono “for you”, per te. 

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Tra il 2004 e il 2005 comincia un risiko frenetico che vede in campo grandi banche europee e lo scenario cambia. Tra i vari progetti uno sembrava il più appetibile: il matrimonio con la Bnl e il Bbva, il Banco de Bilbao Vizcaya Argentaria. La Banca d’Italia governata da Antonio Fazio impone condizioni stringenti, non vuole che Mps venga rinazionalizzato surrettiziamente né che finisca in mano agli spagnoli. Dunque non se ne fa niente. Spunta un’altra  possibilità: la Bnl insieme a Unipol. “Allora abbiamo una banca?”, si lascia sfuggire Piero Fassino mentre Giovanni Consorte, il capo della compagnia assicurativa delle cooperative rosse, lo informa che è quasi fatta. Apriti cielo. La Bnl va alla francese Bnp, e il Montepaschi resta di nuovo solo.

 

Nel 2007 Intesa e Sanpaolo convolano a nozze, mentre Unicredit assorbe Capitalia; a quel punto, Mps rischia di restare fuori dal grande gioco. Dalle sponde del Brenta spunta la Banca Antoniana Popolare Veneta. Gli azionisti di riferimento, già protagonisti delle scalate del 2005, cioè Emilio Gnutti, Stefano Ricucci, i Lonati, vendono l’Antonveneta alla olandese Abn Amro, la quale di lì a poco sarà conquistata dal Banco di Santander – numero uno in Spagna, nelle mani di Emilio Botín, in odor di Opus Dei, fiancheggiato dalla Royal Bank of Scotland e da Fortis. Il potente banchiere non è interessato all’Antonveneta e incarica i Rothschild di trovare un acquirente. C’è una offerta informale di Bnp per otto miliardi di euro, quasi un miliardo e mezzo in più di quanto aveva sborsato Santander. 

  
E il Montepaschi scende in campo. Un anno prima alla presidenza era arrivato Giuseppe Mussari, che aveva guidato dal 2001 al 2006 la fondazione. Nato a Catanzaro nel 1962, si era laureato in giurisprudenza a Siena dove dal 1993 aveva esercitato la professione di avvocato. E’ una scelta che i sacerdoti della senesità non hanno mai digerito.

  

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Si apre a questo punto la prima scatola cinese e spunta il primo teorema: Mps strapaga l’Antonveneta. Scartoffie dopo scartoffie salta fuori che il Monte l’8 novembre 2007 aveva staccato un assegno di 9 miliardi e 267 milioni di euro alla Abn. Poi aveva restituito i debiti pregressi in pancia all’Antonveneta, circa 7,6 miliardi di euro che erano stati coperti dalla banca olandese con l’acquisizione. Al Santander vanno direttamente 5 miliardi mentre 2,6 miliardi passano alla Abbey National di Londra, che fa capo anch’essa a Botín. Nasce così il sospetto che il vero costo sia vicino ai 17 miliardi e dietro questi passaggi s’annidi il marcio, anche perché l’acquisto è avvenuto senza prima aver compiuto una due diligence. In effetti l’analisi riservata dei dati e dei documenti non c’è stata, Abn aveva comprato a scatola chiusa e  vendeva a scatola chiusa. Un errore con il senno di poi, ma niente di illegale, sottolinea la difesa. 

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Il Monte aveva tutti quei quattrini? Certo che no, così decise di aumentare il capitale di 5,8 miliardi pagati dalla Fondazione e dai principali azionisti tra i quali Francesco Caltagirone, primo socio privato con il 4 per cento. Un bel salto, ma ancora insufficiente per rispettare i criteri patrimoniali stabiliti dalla Banca centrale europea. Mps ricorre a un meccanismo finanziario complicato: vara un aumento di capitale di un miliardo riservato alla JP Morgan, che paga emettendo titoli senza scadenza convertibili in azioni. Il meccanismo allora inedito, chiamato con l’acronimo Fresh, in sostanza è un debito coperto da un pegno legato all’andamento del titolo Montepaschi. Può essere assimilato a capitale fresco (cioè “fresh”)? Bankitalia dubita, ma non blocca, per la procura di Siena è un maledetto imbroglio. 

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Siamo nell’autunno 2008, le borse tremano per colpa di ben altri giochini finanziari: i mutui subprime americani che fanno fallire addirittura la Lehman Brothers. La stampa e l’opinione pubblica scoprono che i derivati sono il nuovo sterco del diavolo. Vigni e Baldassarri ne hanno in pancia ben due e belli grossi acquistati nel 2005: Alexandria e Santorini. Sono cdo multipli, debiti trasformati in titoli basati su altri debiti, roba che scotta in mezzo alla tempesta finanziaria e il loro valore scende in picchiata. Che fare? Galeotto fu lo scambio, oggi si può dire, ma allora sembrava una bella trovata. La Nomura e la Deutsche Bank si prendono il rischio l’una di Alexandria, l’altra di Santorini. E si ricoprono con titoli di stato. Non è gratis, naturalmente. “Avete mai visto una banca che fa un regalo a un’altra banca?”, dirà un manager in tribunale. Il meccanismo è complesso. Dal 4 agosto al 19 settembre 2009 il Monte realizza ben 40 acquisti di Btp 2034 con l’unica controparte Nomura, a un tasso d’interesse che da fisso diventa variabile, per ben tre miliardi di euro. La banca senese non ha liquidità sufficiente, così stipula un contratto di pronti contro termine a lunghissima scadenza del medesimo importo: in sostanza i Btp vengono ceduti a Nomura per un corrispettivo in denaro, con l’impegno di riacquistarli in futuro a un prezzo maggiorato. Per Santorini il meccanismo è simile con titoli che scadono nel 2031. Nel frattempo il crac di Wall Street ha fatto crollare i derivati e poco dopo cominciano a ballare i buoni del tesoro. 

 

Il 7 luglio 2009 si tiene una conference call tra i vertici Mps, compreso il presidente e Sadeq Sayeed manager della Nomura. “Caro Mussari – dice Sayeed – le è chiaro che io compro Alexandria nonostante sia fonte di perdite perché lei s’impegna a comprare tre prodotti che la legheranno per i prossimi trent’anni e da subito faranno recuperare a Nomura il costo?”. Risposta: “Mi è chiaro”. Durante il processo vien fuori che si trattava di una formalità per ufficializzare l’accordo, con un copione prestabilito nei minimi dettagli. 

Ma attenti ai colpi di scena, perché spunta “il documento segreto” del 31 luglio 2009. Si tratta di un accordo di mandato (Mandate agreement) tra Mps e Nomura per impegnare le parti allo swap tra Alexandria e Btp 2034. Per l’accusa è la pistola fumante, per la difesa una lettera d’intenti non vincolante, del resto la precedente telefonata era già chiara. La Banca d’Italia casca dalle nuvole. Il documento emerge dalla cassaforte di Vigni e viene rivelato dal suo successore Beppe Viola, nominato nell’aprile del 2012 con Alessandro Profumo alla presidenza. Secondo gli ispettori della Vigilanza, ciò chiarisce che c’era un contratto e c’era una netta perdita. Solo che il documento non era affatto segreto, era stato letto da molti manager di Mps, risulta persino nella posta elettronica e nell’archivio digitale. Poi la copia cartacea era scomparsa, dirottata a Milano dove gli avvocati della difesa l’hanno recuperata. Dimostra in modo lampante che si trattava di uno scambio per ridurre il rischio Alexandria, non di due operazioni disgiunte, tanto meno truffaldine. In quel testo non si fanno cifre, in ogni caso i titoli di stato erano considerati sicuri e la loro scadenza temporale avrebbe consentito di ammortizzare le perdite. Previsioni sbagliate perché la realtà s’è messa a testa in giù. 

Tra l’estate 2010 e la primavera 2011 matura la crisi dei debiti sovrani che colpisce soprattutto l’Italia. Bot e Btp non sono più sicuri e il loro valore precipita, anche di quelli a lunga scadenza. La Commissione per la borsa, guidata da Lamberto Cardia, riceve un esposto anonimo che parla di perdite (mezzo miliardo di euro) non registrate in bilancio a causa di un titolo comprato da Nomura (Alexandria) e di “due operazioni a prezzi fuori mercato. L’acquisto di Btp e la vendita di questi strutturati”. La Consob chiede a Bankitalia, allora governata da Mario Draghi, di indagare. Gli ispettori scartabellano i bilanci di Mps e trovano lo scambio Btp-Alexandria, quindi due operazioni non disgiunte, ma contemporanee. L’affare produce un valore negativo, le variazioni vengono contabilizzate in diversi portafogli. Si può fare? No, questa la tesi dell’accusa sulla quale si basa il suo teorema: Mussari, Vigni e Baldassarri hanno truccato il bilancio per fare emergere un dividendo e lisciare gli azionisti, a cominciare dalla Fondazione. Per la vigilanza la risposta resta incerta, come dimostrano gli interrogatori degli stessi ispettori. Ci si rivolge anche all’autorità europea ed emerge che Mps ha “sfruttato gli spazi interpretativi concessi dalla normativa contabile”.

Ci sono ancora due teoremi, uno grottesco l’altro tragico. Cominciamo dal primo, la maxi-tangente, ben più grande di Enimont (allora si parlò di 150 miliardi di lire, circa 78 milioni di euro, adesso addirittura 1.200 milioni di euro) e forse ancor più deflagrante. Trent’anni fa travolse democristiani e socialisti, ma il Monte dei Paschi di Siena coinvolgeva il Pd, quasi in un gioco di bilanciamento toccava agli ex comunisti. Beppe Grillo tuonò contro “la peste rossa” e “la mafia del capitalismo”. L’hanno cercata dappertutto, hanno ipotizzato il suo importo, hanno ricostruito lo schema: sarebbe stata una distribuzione di titoli parcheggiati all’estero e rientrati con lo scudo di Tremonti. I giudici di Siena, quelli che hanno condannato Mussari, hanno gettato acqua sul fuoco: “Non ne abbiamo nemmeno parlato”.

Resta il teorema David Rossi. Inchieste giudiziarie e parlamentari, libri, tv (ci si sono messe anche “Le Iene”), soprattutto l’angoscia della famiglia che chiede giustizia, ma la verità è ancora lontana. Il corpo del capo della comunicazione è stato trovato riverso sul marciapiede sotto la finestra del suo ufficio al Montepaschi. Sapeva troppo ed è stato ammazzato, il marcio di Rocca Salimbeni lo ha sconvolto, non ha retto allo scandalo, al senso di colpa, si parla di percosse, di torture, spunta persino una misteriosa lettera dal carcere di Palermo. Tutto e il contrario di tutto è stato messo in piazza. Adesso i carabinieri hanno ricominciato le indagini. Per pudore non resta che tacere e aspettare. 

Una volta che tutta la polvere si sarà depositata bisognerà spiegare che cosa ha fatto crollare il Montepaschi per il cui salvataggio i contribuenti hanno speso oltre sei miliardi di euro. Dagli interrogatori emerge chiaramente che la preoccupazione di Bankitalia riguardava certo le spericolate operazioni finanziarie la cui complessità le rendeva difficilmente comprensibili, ma soprattutto la liquidità della banca: “I problemi erano altrove – spiega Giampaolo Scardone, il capo degli ispettori – la mia attenzione era concentrata sulla situazione di liquidità”. Il buco dipendeva dai titoli di stato calcolati ai prezzi di mercato anziché a scadenza, non dai “derivati nascosti” che erano in realtà nient’affatto nascosti. Nel 2010 Mps aveva superato lo stress test della Bce, tuttavia “il rischio Italia” aveva fatto suonare l’allarme. Quando arriva la recessione del 2012, si apre anche la cataratta dei crediti deteriorati, destinati a marcire.

E’ il vero knock out, perché chiunque analizzi Mps senza occhiali sbirreschi si rende conto che la sua debolezza s’annida nella struttura del credito, dipendente dal “sistema Siena”. E’ il filo conduttore di tutte le crisi bancarie degli ultimi anni, da Vicenza ad Arezzo, da Genova ad Ancona fino a Bari. Il legame con il territorio che sembrava l’archetipo della salute è diventato la tabe del modello italiano. La nazionalizzazione del Montepaschi non risolve il problema e per ora non si trovano acquirenti. Alleggerito da molti prestiti “non performanti” e sistemati i conti, resta una pesante zavorra: gli sportelli che un tempo erano oro e oggi, con la rivoluzione digitale, nessuno vuole più. Ma il paradosso dei paradossi riguarda le pietre dello scandalo. Il famigerato Btp 2034 oggi ha un prezzo superiore a 120, il Btp 2031 è addirittura a 125. Chi ha comprato dieci anni fa può vendere e svernare alle Seychelles. Così vanno le cose fuori dai tribunali.

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