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il foglio del weekend

La giustizia degli stregoni

Riccardo Lo Verso

Dal caso Denise Pipitone a Eni e Shell. Così certi pubblici ministeri, già onnipotenti, mostrano doti sovrannaturali

Possono indagare chiunque e dovunque, partendo dal più insignificante dei sospetti. Basta un refolo di vento per scatenare una tempesta mediatico-giudiziaria. Nel circolo vizioso e tautologico della giustizia succede che il fatto provi il reato e il reato sia l’unica spiegazione plausibile del fatto. Il dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale ha reso illimitato il potere dei pubblici ministeri. Alcune prove contrarie vengono tenute nei cassetti, altre e fantomatiche sono confezionate per il circo mediatico. I pm sono diventati ingranaggi di una macchina onnivora che ingurgita tutto ciò che fa audience. Dai sospetti alle suggestioni il passo è breve. Dalle suggestioni ai poteri sovrannaturali anche. Come bramini i pm si muovono nei palinsesti televisivi, moderni templi della stregoneria. Prendi un pubblico ministero. Piazzalo davanti a una telecamera. Fai partire la diretta e lascia che parli a ruota libera. Nessuno saprà alimentare meglio di un pm il sacro fuoco dell’interesse mediatico.   

Nelle ultime settimane è comparsa sulla scena Maria Angioni. Mattino, pomeriggio, sera, notte. Un magistrato ubiquo, onnipresente per la verità. Lo zapping compulsivo non cambia la sostanza delle cose. Lei c’è, sempre e comunque.  Oggi è un “anonimo” giudice del lavoro a Sassari, ma nel suo curriculum c’è un passato da pubblico ministero. Ed è l’unica cosa che conta per essere invitata in tv a sbandierare verità senza una prova. Non un pm qualunque, ma il primo, negli anni di servizio alla Procura di Marsala, che indagò sulla misteriosa scomparsa di Denise Pipitone, la bimba di Mazara del Vallo di cui si sono perse le tracce, ma per fortuna non la memoria, da diciassette anni.  Angioni passa da un canale a un altro, da una rete a un’altra. Si è attrezzata con cuffia e microfono, basta una linea internet veloce e il gioco è fatto. A chi ha i capelli bianchi ricorda gli inviati di “Tutto il calcio minuto per minuto”. L’unica differenza è che non è collegata da uno stadio ma dal salotto di casa. Sullo sfondo i quadri alle pareti, il divano, i mobili: un ambiente rassicurante, fa da contraltare ad un racconto destabilizzante.  

E’ stato un crescendo, il suo. All’iniziò parlava di stranezze nelle indagini. Di verbali striminziti, di gente non tenuta sotto torchio a dovere, di spioni che si prendevano gioco della magistratura. E cioè di lei, perché suo era il coordinamento delle indagini nelle fasi iniziali. Avete presente quei giorni in cui il caso o si risolve subito o non si risolve più? Ecco, di questi giorni si parla. Ad un certo punto Angioni ha detto di essere stata stoppata nell’accertamento della verità. Che qualcuno, addirittura in divisa, la interruppe mentre raccogliere informazioni da una persona, bruciando una pista serissima per trovare la bambina.  Aveva la sensazione di essere pedinata mentre ordinava di piazzare microspie nei luoghi sensibili di un lembo di Sicilia ancora scosso dall’assenza di Denise. Pedinata da altri investigatori. Una telecamera che aveva ordinato di accendere fu spenta senza che il pm ne fosse al corrente. Un carabiniere dovette desistere dal piazzare una cimice, il cui ritorno di ascolto avrebbe potuto essere decisivo. In soldoni, un colossale depistaggio ha impedito di trovare Denise Pipitone e ha protetto colui o coloro che la rapirono una mattina di quasi fine estate mentre giocava sotto casa. Così viene spiegato all’opinione pubblica diciassette anni dopo e in concomitanza, con una coincidenza temporale quanto meno strana, con il riaccendersi delle telecamere sul caso. Una perquisizione, questa sì vera, eseguita su disposizione della Procura di Marsala in una casa disabitata e in un garage ha scatenato il putiferio. Si cercavano tracce del passaggio di Denise tra quelle mura e dentro un pozzo, circostanza che mette i brividi. Nessun esito, ma da allora le telecamere sono perennemente accese.  Ebbe paura per se stessa, la Angioni, stritolata nei mesi che chiudevano il 2004 da qualcosa più grande di lei, che sfuggiva al suo controllo. Qualcosa che zittiva le bocche dei testimoni, che avevano visto e taciuto sulla sorte della piccola Denise. Poco importa che il direttore d’orchestra fosse lei, era lì per lì per essere trasferita al tribunale di Cagliari. Si lasciò alle spalle l’esperienza alla Procura di Marsala e la Sicilia, ma non le ricerche di Denise. Maria Angioni ha continuato a seguire il caso con indagini parallele.

 

Tra un processo e un altro, tra scartoffie civilistiche e contenzioso di lavoro, si è messa a fare la smanettona – è sempre lei a raccontarlo – con un paio di amiche su internet. Se ci sia dell’altro non è dato sapere. Di sicuro ha compulsato fonti aperte sui motori di ricerca, studiato profili social, cercato volti somiglianti a quello di Denise Pipitone che nel frattempo, nella comune speranza che sia viva, è diventata donna.  Ed ecco la  sensazionale comunicazione in diretta. Denise è viva, abita in Europa, è benestante e si è costruita una famiglia. Adesso è madre di una bambina. Fermate le rotative. Lanci di agenzia, titoloni in prima pagina. Qualcuno verifica, per fortuna non tutti si iscrivono al circo mediatico del “basta che sia probabile per essere vero”: colei che dovrebbe essere Denise ha 26 anni, dunque più grande, è tunisina, vive a Nizza ed è in qualche modo legata al contesto familiare dell’ex marito di Piera Maggio, la mamma di Denise. “Non sono io”, ha tagliato corto la donna scovata tramite il sul profilo social.  Capitolo chiuso? Beh no, perché Angioni rilancia. Il suo racconto è adrenalinico. Da qualche altra parte sul web c’è una ragazza che “o è Denise o è sua sorella gemella”, dice Angioni. Così sembra a lei e alle sue amiche. Quale sia il metodo scientifico di comparazione non è dato sapere. Le prove non servono, basta l’idea “che Denise sia viva perché non ci sono elementi che provino che sia morta”. E mentre Angioni pronuncia queste parole in sovrimpressione spunta la scritta, come un mantello da vestale che tutto avvolge: “La verità dell’ex pm”. E chi la scalfisce una verità che proviene da chi è unto con il crisma dell’infallibilità della magistratura.  Tutto questo ribollire di allusioni e suggestioni, di rivelazioni un tanto al chilo ha dato vita a un paradosso. 

Il pm che conduceva le indagini, cioè Angioni, dice che le indagini, dunque le sue, erano fatte male perché qualcuno depistava gli investigatori, sempre coordinati dall’ex pm che, dopo 17 anni, riferisce di saper dov’è Denise. Viene convocata dai pubblici ministeri, quelli di oggi, che hanno riaperto il fascicolo. Dal confronto con i colleghi Angioni esce indagata con l’accusa di avere reso false dichiarazioni all’autorità giudiziaria. L’ex pm non si mostra preoccupata e aggiunge il tassello mancante, quello che d’ora in poi reggerà l’architrave della sua narrazione: “Quando ho parlato ho dato fastidio a qualcuno. Me lo aspettavo perfettamente”.  
E’ lecito attendersi giorni caldissimi, tenendo conto che da indagata l’ex pm avrà diritto di accedere ad alcuni atti con cui puntellare nuove rivelazioni da rilanciare urbi et orbi in televisione.  In principio c’era l’obbligatorietà dell’azione penale. Un modo per mascherare e giustificare lo strapotere concesso ai pubblici ministeri. Il fatto che la prova, codice alla mano, si debba formare in dibattimento alimenta l’illusione della parità fra accusa e difesa. Nessuno aveva messo in conto un’altra obbligatorietà, quella dei pm di apparire in televisione. 

Prima era una moda, ora è un’esigenza dei palinsesti. E così i pubblici ministeri sono diventati opinionisti, fissi o estemporanei, perché la loro presenza conferisce autorevolezza al contenitore ancor prima che al contenuto. C’è la corsa a garantirsi gli ospiti più illustri. L’elenco è lungo. C’è Alfonso Sabella, un tempo cacciatore di latitanti all’antimafia di Palermo quando il capo era Giancarlo Caselli. I suoi meriti sul capo sono inequivocabili. Ha arrestato gente come Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, poi ha creduto di potere dare un contributo alla politica con la parentesi da assessore alla Legalità nella Roma del sindaco Ignazio Marino, quando si iniziava a parlare di Mafia Capitale. Ora lavora al tribunale di Napoli, o meglio come lui stesso dice è stato “spedito” in Campania perché fuori dalle logiche del sistema di Luca Palamara che controlla nomi e nomine.  Altro ospite fisso è Luigi De Magistris che in tv viene chiamato più per il suo passato da pm in Calabria che come sindaco di Napoli. Anche lui ripete spesso di essere stato fatto fuori dalla magistratura. Fino a quando indagava su Silvio Berlusconi era osannato, poi mise il naso nella sinistra e arrivarono i guai.  

C’è Antonio Ingroia, ex pm e ideologo della trattativa Stato-mafia, un biglietto da visita sempre attuale anche ora che fa l’avvocato dopo avere tentato la scalata politica collezionando percentuali da zero virgola.  Un pm è per sempre. Il mantello di sacralità è un dono eterno. Anzi, da ex pm la loro voce diventa più autorevole perché, il caso Angioni fa scuola, si può sempre dire che uomini misteriosi hanno ostacolato la verità, salvo scoprire che a volte capita che siano gli stessi pm ad occultare le possibili prove contrarie. E cioè che qualcuno è stato processato pur in presenza di elementi che avrebbero potuto e dovuto alimentare il dubbio che fosse vittima piuttosto che carnefice. Così sostengono ad esempio a Brescia, dove la Procura ha messo sotto inchiesta due magistrati di Milano, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro. E’ un rivolo che rischia di diventare un fiume quello che nasce dall’accusa, crollata al processo, rivolta a Eni e Shell di aver pagato una maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere nel 2011 una concessione esplorativa di idrocarburi al largo del Delta del fiume Niger. I quindici imputati sono stati tutti assolti nei mesi scorsi, così come le società. Quella tangente non è mai esistita. Detto così rientrerebbe nella casistica, sempre più ampia, dei roboanti processi che finiscono in macerie dopo che il tritacarne ha rovinato vite e reputazioni. Però c’è un però. De Pasquale e Spadaro sono indagati con l’ipotesi di rifiuto di atti d’ufficio per aver omesso di depositare nel fascicolo del processo documenti che sarebbero stati elementi di prova favorevoli agli imputati.  Un altro collega, sempre pubblico ministero, Paolo Storari, (il magistrato che ha consegnato i verbali resi dell’avocato siciliano Piero Amara a Piercamillo Davigo, allora al Csm) aveva inviato a De Pasquale e Spadaro materiale che dimostrebbe che un ex manager “licenziato” dalla compagnia petrolifera italiana aveva “costruito” prove in realtà false per “gettare fango” sui vertici del gruppo di San Donato per poi ricattarli. Materiale che i due pubblici ministeri non hanno messo a disposizione delle difese e del Tribunale durante il processo pur avendo consapevolezza, questa è l’ipotesi, delle false accuse mosse.  E così l’inchiesta nata con l’obiettivo di svelare il più grande caso di corruzione internazionale della storia rischia di trasformarsi in uno dei più gravi scandali della storia della magistratura italiana. 

Perché i pubblici ministeri possono indagare chiunque e dovunque, partendo dal solo sospetto che ci sia un reato, figuriamoci quando il corpo reato sarebbe stato conservato in un cassetto. Il condizionale è più che mai d’obbligo in virtù del principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva che vale per tutti. Inclusi magistrati, pm ed ex pm in servizio televisivo permanente ed effettivo.