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Quanto può far male all’Italia la guerra di Putin? Numeri per orientarsi

Nell'export non ci sono beni strategici mentre l’import ha aspetti più complicati. Ma l’assioma secondo il quale le sanzioni puniscono più chi le applica di chi le subisce non regge. Dati (e un'opportunità)

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Nel 2020 l’Italia ha esportato in Russia per 7,1 miliardi di euro, nel 2021 aumentati a 7,7 secondo Eurostat. Nei due stessi anni ha importato per 9 e 14 miliardi, con uno squilibrio russo di due miliardi nel 2020 e oltre 6 nel 2021. Ne deriva che nello scenario di sanzioni totali (ipotesi al momento estrema), a rimetterci di più sarebbe Mosca. Dati confermati anche dall’Ice (Istituto commercio estero) per il quale tra i clienti di prodotti russi l’Italia non figura tra i primi cinque, posizioni occupate da Cina, Paesi Bassi, Regno Unito, Germania e Turchia. È invece il quinto tra i fornitori dopo Cina, Germania, Usa e Bielorussia. Un pacchetto di sanzioni generalizzato, dunque, colpirebbe in Europa tra gli importatori più Germania, Regno Unito e Paesi Bassi che non l’Italia. E questo perché l’Italia è sì tra i maggiori partner della Russia, ma principalmente per il gas naturale, del quale importiamo ben il 43 per cento del nostro fabbisogno.

 

Questa fotografia della situazione smentisce parzialmente l’assioma secondo il quale le sanzioni puniscono più chi le applica (in questo caso l’Europa e il mondo libero, visto che ad Ue e Usa si sono aggiunti Giappone e Australia), che non chi le subisce. A conferma in base a dati del Kiel Institute, tra il 2014 e il 2017 le sanzioni dopo l’annessione della Crimea sono costate al Pil russo il 2,3 per cento, all’Ungheria l’1,6, a seguire Polonia, Germania, Paesi Bassi, Austria; sul Pil di Italia e Francia hanno pesato per lo 0,2.

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Business è comunque business, ma rispetto al post Crimea, o andando più indietro alla Guerra fredda, molto è cambiato nei legami economici Italia-Russia. Le auto per esempio non sono più ai primi posti e non lo saranno in futuro visto la trasformazione ibrida ed elettrica, alimentazione che in Russia è pressoché sconosciuta.

 

Nel paniere di beni esportati ci sono invece per il 28 per cento macchinari e per il 23 abbigliamento e pelletterie. A seguire, prodotti chimici, alimentari e bevande, metalli semilavorati. Non beni strategici (tranne ovviamente per chi li produce e per le 660 imprese italiani presenti in Russia), e soprattutto per i quali non è impossibile trovare mercati di sostituzione. Invece l’import ha aspetti più complicati. Il 60 per cento è dato da materiali di estrazione, a cominciare dal gas. Il 23 da metalli di base. Il 9,5 da petrolio.

  

Qui siamo tra i beni strategici, situazione che dipende anche dalla miopia italiana in fatto di approvvigionamenti energetici e di futuro della siderurgia. La dipendenza energetica italiana è superiore a quella della Germania, della Spagna, della Francia e della media dell’Eurozona.

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La Banca centrale europea ha recentemente calcolato che un taglio del 10 per cento nell’approvvigionamento di gas russo impatterebbe per il 5 per cento sul fabbisogno tedesco, per il 6 per cento della media Eurozona, per il 7 di Francia e Spagna, per l’8 dell’Italia. Dopo il 2014 l’export di gas russo verso la Germania si è ridotto in conseguenza della minore dipendenza dal gas per la produzione elettrica. In Italia l’elettricità dipendeva dal gas per il 34 per cento otto anni fa, oggi dipende per il 49, e quasi tutto viene dalla Russia.

 

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La dipendenza estera, prima dalla Libia, poi dalla Russia, ora dal giacimento offshore azero attraverso il Tap, sempre comunque da aree problematiche, è il regalo di scelte politiche e pseudoambientaliste, alle quali solo ora il governo ha deciso di mettere una pezza intensificando le trivellazioni nazionali per raddoppiare l’attuale produzione fino a 7 miliardi di metri cubi.

 

L’agroalimentare è un altro settore critico, importa mais (dall’Ucraina) e grano tenero e fertilizzanti (dalla Russia). Ma anche l’agricoltura italiana con le spalle più forti grazie ai successi nell’export degli ultimi anni, può trovare in prospettiva mercati sostitutivi. Le banche sono un capitolo a parte, problematico.

  

La sospensione dai circuiti internazionali (il famoso stop allo Swift), il congelamento delle transazioni in dollari, colpisce soprattutto Unicredit, esposto per 14 miliardi verso clienti russi, e Intesa, con 5,6 miliardi. La Bce ha chiesto resoconti dettagliati e lo sbilanciamento non è solo italiano: per le nostre banche rappresenta lo 0,5 per cento dell’esposizione totale, per quelle austriache l’1,3. Ma tutti gli altri paesi europei, Usa, Giappone e perfino Turchia hanno esposizioni minori. La Germania per lo 0,1. Il sistema bancario italiano si è mostrato comunque reattivo (Unicredit ha ridimensionato la tradizionale Ostpolitik), e durante la pandemia ha rafforzato patrimoni e capitalizzazione grazie anche alle fusioni.

  

La lezione è dura ma può trasformarsi in opportunità. Anche a livello europeo: la commissione Ue, discutendo il nuovo patto di stabilità, potrebbe includere il rischio geopolitico tra gli elementi di flessibilità nel valutare i conti pubblici. Bisogna però cambiare, a cominciare dall’energia e non solo (esempio, approvando il Mes). Se non con una guerra in atto, quando?

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