Che cos'è l'uomo oggi

Sergio Belardinelli

Esaltando l’individualismo la postmodernità ha frantumato l’unità del nostro io. Siamo narcisi solitari, senza legami e infelici. Lezioni per capire il mondo nuovo

Ci sono due libri capaci a mio avviso di illuminare come pochi altri gran parte delle patologie socio-culturali del nostro tempo: il primo è La cultura del narcisismo di Christopher Lasch, pubblicato nel 1979; il secondo è Dopo la virtù, di Alasdair MacIntyre, pubblicato nel 1981. Entrambi i libri cercano di ricondurre certi effetti “asociali”, individualistici, narcisistici, diciamo pure, certe distorsioni relazionali così diffuse a tutti i livelli della nostra vita sociale, non tanto e non solo al culto del proprio io, quanto a una vera e propria disgregazione della vita pubblica, nonché del senso di appartenenza a una tradizione e a una storia.

 

Detto in altre parole, questa almeno la tesi di Lasch, il narcisismo ha a che fare certo con determinate distorsioni patologiche della personalità (un culto di sé che deforma le relazioni con gli altri e con se stessi, senso di dipendenza e paura della dipendenza, vuoto interiore, ira repressa), ma anche con cambiamenti strutturali della società e della cultura, tra i quali, ne elenco solo alcuni, la burocratizzazione della vita, la medicalizzazione della società e il conseguente terrore della vecchiaia e della morte, l’alterazione del senso del tempo, la proliferazione delle immagini, il culto del consumismo, il fascino della celebrità, i cambiamenti intervenuti nella vita familiare e nei modelli di socializzazione (deficit di generazione in senso biologico – la crisi demografica – e in senso culturale – la crisi dell’educazione), i quali in un certo senso favoriscono la patologia narcisistica e ne vengono a loro volta rafforzati. Il mondo di ieri, per intenderci – e dico mondo di ieri in senso molto lato: dal mondo greco all’età modera – era caratterizzato da fattori strutturali e culturali che ostacolavano la diffusione del narcisismo (la durezza della vita, un forte senso della realtà, legami sociali molto forti, ferrei processi di socializzazione, fiducia nel futuro e si potrebbe continuare). Si pensi, per fare un esempio, alla società del lavoro del XIX secolo e ai suoi principali cantori: Hegel, Marx o Comte. Questa società viveva del pathos del progresso e della verità. Il mondo contemporaneo invece, per i motivi che ho già accennato, si caratterizza per la presenza di elementi strutturali che promuovono il narcisismo. La società del lavoro e del sacrificio ha lasciato il posto alla società del consumo e del divertimento, il pathos del progresso e della verità al culto del presente e allo spaesamento relativistico. Se il mondo di ieri soffriva di un eccesso di legami sociali, il mondo contemporaneo soffre per un eccessivo indebolimento degli stessi; se fino a ieri il narcisismo era una patologia piuttosto rara, oggi, ne vediamo all’opera i segni un po’ ovunque. Parlare di cultura del narcisismo significa dunque prendere atto di un fenomeno che va ben oltre la patologia psicologica e tende invece a investire l’intero universo della vita sociale.

 

Al fine di esplicitare meglio alcuni tratti della società e della cultura del nostro tempo che chiaramente costituiscono un buon brodo di coltura per il narcisismo, credo che possa essere utile fare riferimento all’altro libro di cui parlavo all’inizio: appunto Dopo la virtù, di Alasdair MacIntyre. I molti che hanno letto questo libro, ne conoscono senz’altro la trama avvincente e il nucleo fondamentale, espresso fin dalle sue prime battute, come se si trattasse di un racconto di fantascienza. Si racconta di uomini che, a seguito di una non meglio precisata “catastrofe”, hanno perduto il senso della cultura nella quale vivono. Della società scomparsa, come macerie, sono rimaste alcune parole, termini etici valutativi quali “buono”, “cattivo”, “giusto”, “ingiusto” o espressioni deontiche con cui i superstiti indicano ai loro simili cosa “debbano” fare in determinate circostanze. Sono rimaste altresì, aggiungo io, parole come “educazione”, “formazione”, “normalità”. Ma ciò che è scomparsa è la concezione dell’uomo dalla quale questi termini traevano il loro significato; è scomparso il contesto socio-relazionale all’interno del quale la vita umana appare ancora come la vita di un “io” che non è soltanto un fascio di ruoli, o una qualche “abilità professionale” o un grumo di desideri, ma una vita unitaria, una vita intera, una biografia valutabile come un “tutto”.

 

L’epoca tardo-moderna o postmoderna nella quale viviamo ha frantumato sia l’unità del contesto socio-culturale all’interno del quale ognuno di noi agisce, sia l’unità del nostro io. Come ha mostrato Niklas Luhmann, la società odierna è una società “differenziata”, dove i diversi sistemi sociali tendono a operare in modo sempre più autoreferenziale, sempre più chiusi l’uno rispetto agli altri. Si tratta di un processo che indubbiamente ha portato con sé innumerevoli vantaggi materiali e funzionali, come pure un aumento di libertà individuale. Ma oggi ciò che sembra vacillare è proprio la centralità dell’uomo e della sua libertà. La società differenziata in modo funzionale è una società i cui sistemi parziali funzionano sempre di più in modo autopoietico, autoreferenziale, sono sempre più chiusi l’uno rispetto all’altro; soprattutto il loro funzionamento sembra guidato sempre più da codici che non hanno nulla a che fare con l’“umano”. Come dice espressamente Luhmann, “l’uomo non è più il metro di misura della società”. Anche l’uomo è un sistema autoreferenziale, e, in quanto tale, egli vive nell’ambiente del sistema sociale; non fa più parte della società. Siamo quindi di fronte a un processo paradossale che esprime assai bene quella che potremmo definire come l’irresistibile ascesa, quasi prometeica, del soggetto moderno e la sua conseguente rovina narcisistica. Cerco di spiegarmi brevemente.

 

Almeno nelle sue varianti più note, il soggetto moderno vuole essere sempre più “individuo”, sempre più autonomo e libero da qualsiasi legame sociale che inibisca la sua spontaneità e la sua creatività; la sua libertà si configura soprattutto come emancipazione dai cosiddetti legami tradizionali. Questo soggetto mette una grande energia vitale nei suoi progetti di emancipazione; lotta contro Dio e contro gli uomini per affermare la sua libertà; è ammaliato, come sappiamo, dalla certezza che il futuro sarà radioso per lui e per la società. Ebbene, per certi versi, è come se Luhmann ci dicesse che questo soggetto ha coronato nell’odierna società differenziata il suo sogno. Egli in effetti è sempre più libero di fare quello che gli pare su ogni fronte della sua vita, a cominciare da quando va a scuola, dove a nessuno viene più in mente di frenare la sua spontaneità. Può condurre lo stile di vita che preferisce, consumare ciò che vuole, autodeterminarsi persino in ciò che ieri era impensabile (il sesso, il modo di avere figli o di morire). Ma il prezzo che deve pagare è la sua crescente irrilevanza sociale. La società funziona come se il soggetto non esistesse; il soggetto le serve soltanto in quanto funzione sistemica; non c’è più un luogo sociale nel quale riconoscersi in quanto soggetto, né un progetto sociale che richieda la sua energia vitale. La società si sviluppa da sola, autopoieticamente. E così il sogno di certo soggettivismo individualistico diventa un incubo; un incubo fatto di vuoto, di solitudine, di spaesamento, diciamo pure, di disprezzo di sé. Come ci ha ricordato giustamente Lasch, peraltro in linea con Freud, il narcisismo “ha più punti in comune con il disprezzo di sé che con l’ammirazione di sé”. Ovvio dunque che il narcisista non sia felice. La sua puerile concezione di felicità, basata sul culto di se stesso, coincide in realtà con un progressivo svuotamento di ogni energia psichica e sociale e di ogni forma di vitalità. Il narcisista è un vecchio, un pensionato della storia, anche se ha solo vent’anni. In nome dell’assoluta autodeterminazione, egli rivendica il diritto di disporre di ciò che fino a ieri era natura, destino, dovere. Ma in questo modo persino la libertà diventa per lui una parola vuota e, in ultimo, una fonte di frustrazione. Le cose fondamentali della nostra vita non sono il prodotto di una scelta. Non scegliamo il luogo dove nascere né i genitori da cui nascere; non scegliamo le doti naturali con le quali veniamo al mondo, né l’ambiente nel quale veniamo al mondo. Senza gli altri, senza il conteso nel quale ognuno di noi è collocato, non si può essere liberi. L’altro non è soltanto un limite della mia libertà, ma anche la condizione che la rende possibile. Impariamo la libertà solo se qualcuno ci educa a essa.

 

Ciò che abbiamo perduto è esattamente il “contesto” della nostra vita, diciamo pure il legame costitutivo di ciascuno di noi con la storia o le storie che contraddistinguono ciò che siamo. Come dice MacIntyre “senza questo contesto e i suoi mutamenti attraverso il tempo la storia del soggetto individuale e dei suoi mutamenti attraverso il tempo sarebbe inintelligibile”. Avremmo appunto un io frammentato, un io che è “uno nessuno e centomila”, perché privato di quello che MacIntyre definisce il suo “sfondo”, uno sfondo “fornito dal concetto di storia e da quel genere di unità del personaggio che una storia richiede”.

 

La cultura del narcisismo di cui stiamo parlando presuppone in qualche modo la rottura del “concetto di storia”. La presuppone e nel contempo la rafforza. I segnali li possiamo vedere nella crisi della catena generazionale che abbiamo registrato in questi ultimi decenni, nella crisi dell’istituzione familiare e dei sistemi educativi in generale, nella difficoltà a pensare il passato, a riconoscersi in una tradizione, e soprattutto nella difficoltà a pensare al futuro. Sarebbe troppo lungo esaminare nel dettaglio ognuno di questi segnali. Ad ogni buon conto la crisi dell’istituzione familiare e dei processi di socializzazione in generale è sotto gli occhi di tutti. Lo stesso dicasi della crisi della scuola, ridotta a semplice acquisizione di determinate abilità o competenze, mettendo completamente da parte la pur minima istanza formativa. In famiglia e a scuola ci siamo poco a poco dimenticati che il semplice fatto di nascere uomini implica che abbiamo bisogno di educazione. Ne abbiamo bisogno, non per diventare buoni cattolici o buoni cittadini, ma semplicemente per trovare la nostra strada, per sentirci a casa nel mondo che abitiamo e diventare ciò che siamo: uomini, appunto; persone, la cui irripetibile unicità si esprime sempre in un tessuto di relazioni costitutive.

 

A differenza degli altri animali, gli uomini hanno bisogno di molto tempo per “trovarsi”, per imparare a dire “io”, per condurre una vita all’insegna dell’autonomia, della libertà e della responsabilità; hanno bisogno di relazioni significative con altre persone che li amino e, amandoli, sappiano schiudere loro la bellezza del mondo e della vita. Ciò che siamo dipende in primo luogo dalle persone che ci hanno amato e dall’educazione che abbiamo ricevuto. L’uomo è un animale relazionale, non una monade autoreferenziale. Ha bisogno degli altri per diventare ciò che è. Ha bisogno di sentirsi amato, di sentirsi parte di una storia; non sopporta di essere solo, gettato nel mondo, senza speranza. Ma che cosa si può sperare in una società che fatica a pensare al futuro?

 

Come dice Christopher Lasch, “L’emergenza della personalità narcisista riflette tra le altre cose un drastico mutamento del senso storico. Il narcisismo emerge come forma tipica di struttura del carattere di una società che ha perso interesse per il futuro”. A tal proposito mi sembra particolarmente eloquente la nostra crisi demografica. Una società che non mette più al mondo i figli non è soltanto una società che invecchia, ma una società disperata, una società disperatamente aggrappata al presente e per questo terrorizzata dalla vecchiaia e dalla morte. “Il terrore degli anni che passano – è sempre Lasch a dirlo – non nasce dal culto della giovinezza, ma dal culto di sé”. La nostra narcisistica indifferenza, se non addirittura disprezzo, nei confronti degli anziani ormai incapaci di nascondere gli anni e la loro fragilità, come pure nei confronti delle generazioni future, esprime emblematicamente la crisi antropologica di una cultura che ha perduto il senso del legame sociale e ha rinunciato al futuro.

 

Emile Durkheim giustificava quella che definiva la necessaria coercitività dei fatti sociali, dicendo che l’uomo, senza le norme sociali, senza la coercizione che la società esercita su di lui, sarebbe rimasto vittima dei sui desideri senza fine. Mai e poi mai avrebbe potuto immaginare che proprio a questo avrebbe puntato l’odierna società dei consumi. Come segnalava Pierre Bourdieu una ventina d’anni fa, la coercizione sarebbe stata sostituita dalla stimolazione, l’imposizione forzata di modelli comportamentali dalla seduzione, il controllo del comportamento dalle pubbliche relazioni e dalla pubblicità e la regolamentazione normativa in quanto tale dal sorgere di nuovi bisogni e desideri.

 

Se ci pensiamo bene, l’odierna società dei consumi riflette bene quello che Charles Taylor descrive come pervertimento della cultura dell’autenticità nella cultura del narcisismo, allorché l’ideale della vita autentica si sgancia progressivamente dalla morale e diventa un affare eminentemente estetico, creativo, collegato non a caso alla vita artistica. Si tratta di un fenomeno che, secondo Taylor, incomincia a svilupparsi nella cultura europea del XVIII-XIX secolo, conferendo all’artista un prestigio sociale fino ad allora sconosciuto, e che trovo assai illuminante anche per il discorso che stiamo facendo sulla cultura del narcisismo. Chi è infatti l’artista nel nostro immaginario collettivo? L’artista è colui che esce dagli schemi, colui che sa liberarsi dal peso delle tradizioni, che sa vivere in proprio, rompendo con tutte le convenzioni, le ipocrisie, le gabbie di normalità che gravano come macigni su tutte le società. Sappiamo bene però che tutto ciò costa anche molta fatica; la realtà resiste; per contrastarla, ci vuole spesso una volontà ferrea e una vitalità inesauribile. Per farla breve, non si possono abbattere i pregiudizi della cosiddetta “normalità”, coccolando semplicemente il proprio io, il proprio “pupo”, direbbe Pirandello. Ebbene la mentalità narcisista è come se assumesse l’artista come proprio ideale, senza disporre però della sua energia. L’eccezione che il narcisista contrappone alla normalità è quella di chi, guardando soltanto al proprio io, semplicemente si disinteressa degli altri e delle norme sociali. Egli non vuole combattere i pregiudizi per affermare un ideale più autentico, ma solo per affermare se stesso, per giunta secondo gli standard della società dei consumi in cui vive. Una sorta di contradictio in adiecto.

 

Essendo diventati, infatti, tutti eccezionali, la stessa differenza, diciamo pure, l’eccezionalità di ciascuno, sembra diventare sempre più indifferente, addirittura fonte di disprezzo di sé. Ci accorgiamo che il nostro vivere estetico, come direbbe Kierkegaard, è un vivere che funziona finché è veramente un’eccezione; ma nel momento in cui diventa la norma, nel momento in cui si diffonde in tutti gli strati sociali, penetrando nei diversi modi di essere e di sentire, esso finisce per vanificare persino le eccezioni, e tutti diventiamo non a caso sempre più anonimi, sempre più impotenti e risentiti rispetto alla realtà che ci circonda.

 

Sintomatici in proposito alcuni tratti della cultura occidentale degli anni Sessanta. Si pensi a Marcuse e alla prima generazione della famosa Scuola di Francoforte. La loro cultura ha poco o nulla a che fare con la fatica che la realtà impone per “conciliarci” con essa e per poter vivere una vita decente; la realtà va piuttosto trasfigurata ideologicamente, va resa insopportabile, per poterla poi trasformare radicalmente. Di qui il marcusiano “Grande Rifiuto, la protesta contro ciò che è”, la “negazione totale dell’esistente”, insomma una negatività devastante. In nome dell’eros, del “principio del piacere”, questi autori non si accontentano più di liberare il mondo del lavoro; vogliono piuttosto liberare il mondo dal lavoro. Come dimenticare, ad esempio, il fascino esercitato negli anni Sessanta e anche in seguito dall’idea marcusiana di “trasformare il corpo umano da strumento di fatica in strumento di piacere”? Questa citazione, come è noto, si trova nella “Prefazione politica” scritta da Marcuse nel 1966 a Eros e civiltà e rappresenta per me uno dei manifesti più comprensivi del cosiddetto Sessantotto, un simbolo chiave capace di evocare un’intera storia. Il freudiano “principio del piacere” – questo il senso della posizione marcusiana – è stato non soltanto “sublimato”, come pensava Freud, ma letteralmente stravolto nel “principio di realtà”. Occorre pertanto stravolgere la realtà per cercare di liberarlo di nuovo. La cosiddetta civiltà, almeno quella capitalistica, non è altro che oppressione dell’individuo, della sua libertà, della sua spontaneità e, in ultimo, della sua possibilità di essere felice. Insomma una perdita secca. Guai dunque alle regole che inibiscono la nostra spontaneità; guai alla menzogna delle istituzioni liberaldemocratiche; guai a tutto ciò che chiamiamo “razionale” e che invece occulta semplicemente il patto segreto tra il potere e la morte. Largo invece a tutto ciò che è capace di liberare il “principio del piacere”, di rilanciare il desiderio e di combattere la realtà dell’esistente. Così l’immaginazione sarebbe dovuta andare al potere; una pedagogia “critica” basata sullo spontaneismo del fanciullo avrebbe dovuto prendere il posto di quella “tradizionale”; quanto alle principali istituzioni sociali, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola, esse andavano semplicemente sbaraccate, quali espressioni di una società ingiusta e repressiva. Questo il senso dell’affermazione marcusiana, destinato a pervadere l’intera cultura occidentale, del quale forse soltanto oggi siamo in grado di vedere il senso più vero, più profondo e più devastante, e dal quale la cultura del narcisismo ha tratto sicuramente il suo propellente ideale.

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