Le belle contrade

Claudia Gualdana

Piero Camporesi, Il Saggiatore, 216 pp., 22 euro

Lodevole l’iniziativa del Saggiatore: ripubblicare le opere di Piero Camporesi. Dopo “Il pane selvaggio”, è il turno de “Le belle contrade”. Camporesi, scomparso nel 1997, è stato una singolare figura di filologo, storico e antropologo. Titoli altisonanti per un autore che come pochi ha saputo raccontare l’Italia antica, dal Medioevo ai primi barlumi del tempo moderno, illustrandone il folklore, le arti e i mestieri, la percezione che della vita aveva l’uomo di quel tempo. Ma non si creda di trovarsi tra le mani libri per iniziati, buoni solo per studenti e studiosi. Tutt’altro. Perché Camporesi è stato prima di tutto uno scrittore.

 

 Una lingua sciolta, personale, tortuosa e piena di allegra empatia, la sua. Infatti leggere “Nascita del paesaggio italiano” è un piacere. Lasciamo che sia lui a dire, mentre spiega i “De Magnalibus” di Bonvesin de la Riva, anticipando che qui nulla c’è del gusto gaddiano delle meraviglie d’Italia: “E’ un paese osservato dalla bottega, dalla piazza, dall’aia, dall’osteria, dal refettorio conventuale, un rapporto sull’Italia quale poteva uscire da una fantasia popolare molto sensibile sia alla produzione e alle attività manifatturiere, sia a tutto ciò che simboleggiava il rovescio del lavoro e il rigetto della fatica manuale, la truffa, la ribalderia, il parassitismo, l’oziosità”. Niente emozioni byroniane di fronte alla magia delle antiche rovine, nessuno stupore davanti ai paesaggi di Asolo, che paiono un dipinto di Giorgione, nessun fremito nei pressi della campagna toscana, delle sue mirabili città e dei campanili dell’Italia tutta. Nei resoconti di Annibal Caro e Girolamo Brusoni, per citare nomi poco noti ai più, troviamo la fuliggine delle miniere e le schiene rotte dalla fatica di chi ci lavora. La magnificenza dei prodotti dell’orto, un paese ricco, a cui poco importa della propria storia millenaria, ma guarda avanti pur senza saperlo, tra zucche grandi e grosse e tessuti tinti a dovere. Ci si incanta di più di fronte ai prodigi della natura che non alle sue bellezze.

 

 Basti pensare alla descrizione che il Leandro Alberti fa dell’isola d’Elba: “Nel mezzo d’essa è una fontana la quale sparge grand’acqua, tal che rivolge molti molini, ed è di tal natura che la cresce e scemasi secondo lo crescere e scemare dei giorni”. Delizie per studiosi del tempo antico e moderno. Perché qui protagonisti sono la terra e l’uomo. Com’è d’uopo per un antropologo come Piero Camporesi. Che da studioso che si rispetti restituisce uno spaccato di vita vera, vissuta, tra le contrade di quegli anni remoti. Con molte concessioni allo stile e alla bellezza, perché il suo italiano è un capolavoro di chiarezza, nell’abilità innata di incatenare alle pagine che hanno solo i veri scrittori.

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