Jeffrey Tate

Addio Jeffrey Tate, genio della musica con la spina bifida

Mario Leone

Medico, pianista, direttore d'orchestra. La sua intera carriera, segnata dall'handicap, è stata un inno alla vita

Jeffrey Tate amava la vita. Non lo diciamo perché la sua esistenza era contraddistinta dalla malattia e dalla conseguente sofferenza fisica. Lo diciamo per la sincera testimonianza che ha reso alla musica e alla medicina. In verità la prima passione era per la medicina, lui provato nel corpo dalle conseguenze di una deformazione alla spina dorsale, credeva nel valore della vita, sempre. Voleva guarire corpi e, per i misteriosi percorsi dell'esistenza, si è trovato a guarire, con la musica, anime. Quindi il podio, la direzione d'orchestra. Le orchestre dirette in giro per il mondo nei maggiori teatri, e poi nel 1970 al Covent Garden di Londra.

 

 

Se ne va stroncato da un malore all'Accademia Carrara di Bergamo. Curioso, profondo studioso. Ottimo pianista. Nessuno avrebbe scommesso che sarebbe diventato direttore d'orchestra. Erano dubbiosi anche i suoi genitori quando assistevano con malcelato sospetto al palesarsi del suo talento. Braccia forti, sguardo deciso. Il limite fisico gli impediva la direzione di alcune opere (l'ultimo Verdi ad esempio), ma l'amore per la musica non gli ha impedito di regalare al suo pubblico esecuzioni memorabili come l'integrale delle Sinfonie mozartiane o il repertorio wagneriano. La musica è stata la sua terapia, l'ossigeno che mancava ai suoi polmoni rachitici. Analitico nella lettura dalle partiture, il suo pensiero musicale era ammaliante, contemplava la partitura costringendo l'ascoltatore ad ascoltare in ginocchio. Se ne va di colpo dopo anni passati più in ospedale che altrove. Al mondo musicale e non solo rimane la gioia della sua musica, della sua presenza. Rimane il silenzio. 

 

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