Cosmo

Nicola Baroni

Witold Gombrowicz
Il Saggiatore, 224 pp., 24 euro

Un passero impiccato, uno stecco appeso, l’incontro di due amici in fuga dalla noia (“Se non ci fossimo tanto annoiati… non sarebbe successo un bel niente”) e il loro soggiorno in una pensione di campagna gestita da una famiglia misteriosa, infine qualche segno di umidità sui muri della casa, forse un messaggio. Il tutto raccontato da uno dei due, Witold, sempre incerto sulla veridicità dei fatti che riporta. E’ Cosmo (1965), del polacco Witold Gombrowicz, uno dei maggiori autori europei del secolo scorso, in libreria in una nuova traduzione.
La realtà è “una proliferazione che va oltre il sopportabile” e già osservarla significa, kantianamente, prenderne uno spicchio soggettivo e arbitrario. A ciò si aggiunge la necessità, nel raccontare, di selezionare e tracciare un percorso nella molteplicità dei dettagli: “Una foresta? La gente dice ‘foresta’, ma non significa nulla: di quanti piccoli particolari, inezie e minuzie si compone la singola foglia di un singolo albero?”. Witold è dolorosamente scisso tra la volontà di riordinare il caos in un cosmo romanzesco e l’angoscia che questo sia troppo parziale: “Sto annotando dei fatti. Questi e non altri. Perché proprio questi?”, “No… questa storia non ce la faccio a raccontarla”. Risolve lo stallo trovando associazioni analogiche tra elementi apparentemente slegati: il passero si combina con lo stecco, le labbra di una donna con quelle di un’altra, tutto rimanda in continuazione a qualcos’altro. “In che senso?”, si chiede lui stesso, nessuno, solo un ordine delirante, purché sia, per non annegare nel nero pastoso del caos.
Dalla realtà emergono anche elementi spaiati che scombussolano le sue associazioni: “Ecco saltare fuori quella teiera senza capo né coda, il classico cavolo a merenda, a se stante”, finché non compare un prete, a ribilanciare tutto: “Un prete in sottana seduto su una pietra tra le montagne? Mi tornò in mente la teiera, perché quel prete era come la teiera”.
A queste associazioni in sequenza il protagonista dà perfino valore indiziale, creando una folle investigazione poliziesca. Al contrario del Pasticciaccio gaddiano, dove il colpevole non si trova perché la realtà è uno gnommero inestricabile, qui il colpevole forse neppure esiste, ma conviene fingere ci sia per poter credere in un percorso che intessa la realtà. E, a forza di fingere, diventa lui stesso il colpevole. Se il passero e lo stecco appesi possono essere stati una coincidenza, Witold uccide e impicca un gatto, completando la triade: a questo punto tre indizi sono troppi per credere in una coincidenza, non importa che il terzo l’abbia creato lui stesso.
Dita in bocca, onanismi sotto la tovaglia, deliri linguistici, dialoghi dell’assurdo, elenchi infiniti, argomentazioni dementi. A poco a poco emergono le radici di questo impasse conoscitivo: un erotismo represso dall’inazione e una noia che porta all’incessante elucubrazione paranoica, entrambi sadicamente coltivati, perché “si fa presto a dire: ‘Voglio guarire’, ma suona falso, come se uno dicesse: ‘Non voglio essere quello che sono’”. Questo meccanismo interpretativo folle e solipsistico rende il protagonista impotente di fronte a qualsiasi scelta, anche quella di camminare tra due pietre sul sentiero o al loro esterno: è indifferente, ma vi indugia per due pagine. E’ la stessa indecisione cronica dell’autore che, non sapendo come chiudere il romanzo, né volendo assumersi la responsabilità di scegliere, lo fa con le parole della moglie che lo chiamava a tavola: “E oggi a pranzo, pollo lesso”. Mai conclusione fu, allo stesso tempo, più arbitraria e azzeccata.

 
COSMO
Witold Gombrowicz
Il Saggiatore, 224 pp., 24 euro

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