Grande secolo d'oro e di dolore

Alessandro Moscè

Vincenzo Pardini
Il Saggiatore, 355 pp., 21 euro

Vincenzo Pardini (nato nel 1950 in provincia di Lucca) è un narratore che racconta storie di animali, non solo di uomini che provengono da una società resistente, periferica, vociante e caotica. Questo libro è collocato in un ambiente soprattutto rurale, appartato, tra i tetti di ardesia, negli ambienti erbacei della Garfagnana e della Media Valle del Serchio dove presumibilmente nacque l’antica casata dei Longobardi, una stirpe discesa da Liutprando e dagli dèi germanici, scomparsa nel 1983 con la morte dell’ultima erede, Leonide Francesca Lusetti. In un piccolo borgo di case e in un contesto prettamente familiare, domestico, si innesta la ritualità di un mondo vicino e allo stesso tempo lontano, stralunato (“A Basilio i dolori allo stomaco proseguivano. Talvolta così intensi da doversi sdraiare a terra. Ma il suo volto non mostrava ombra di smarrimento. Svanito il dolore, se in compagnia, irrideva medici e scienza, convinto che il male, qualsiasi male, si curasse mangiando e bevendo. Per questo, quell’anno, del porco, non aveva venduto nessun insaccato”). Le giovenche orinano in strada, le anime dei morti aleggiano tra cielo e terra, un poeta improvvisato, nano, declama versi in rima, i medici vengono considerati degli sciamani. C’erano le trattorie quando nel Dopoguerra si ritornava all’operosità contadina dopo le divisioni e gli scontri tra partigiani e squadristi (“combattere e morire” era un credo e una logica). Il progresso fa quasi spavento con l’arrivo dei primi elettrodomestici e delle prime automobili. Pardini ha un modo tutto suo di raccontare: la lingua coincide perfettamente con la cosa o con l’animale (orso o vacca che sia). La descrizione non va oltre la sostanza, ma improvvisamente fuoriesce per una divagazione onirica, per un sussulto perfino commovente. Il luogo è la forza del libro, come sempre è stato nei racconti di questo autore. Un luogo ancestrale, dove le persone sono un po’ selvagge, primitive, simili agli animali dei quali si circondano o che incontrano casualmente in montagna, con il loro istinto difensivo mentre trasportano il legname verso casa. Lo scrittore ammette che componendo un libro non tiene conto delle mode letterarie del momento, ma scivola lungo il tempo con uno stile ruvido, pregnante. Da dove siamo e da dove veniamo: il destino della gente di Pardini è una cassa di risonanza, un suono di campana, uno scuotimento accolto nel presente e nel passato per rispondere a una domanda complessa. Questo passato fa capolino anche con la medianità dei personaggi, con i fantasmi appenninici, nei boschi al limite dei quali speranze e tragedie si alternano lungo il secolo breve. Tradizioni e territorialità sviluppano un’epopea quotidiana, un’oralità trasformata in letteratura, una parlata incisiva, nominale, tra guerre, spiriti benigni e influenti, fino agli anni Ottanta che chiudono il Novecento d’oro e di dolore contrassegnato dal passaggio tutt’altro che inosservato della signora Leonide. “Nella casa del paese, nell’angolo ove lei sedeva, respira ancora il suo sapore di fiori selvatici. Più che mai avverte d’averla accanto e che lo protegge. E questo gli basta. Potrebbe infatti essere l’inizio di un’altra storia, di quelle che, come diceva lei, non fanno morire mai”. Vincenzo Pardini non esprime un giudizio fuori campo, non prende mai una posizione che lusinghi o denigri qualcuno dei suoi personaggi stravolti. E’ solo l’atto della parola ad avere una coscienza, un’evidenza e un’universalità. I parlanti, per così dire, si muovono a tentoni, non perdono la strada di casa che li riconduce a una sicurezza apparentemente banale, fatta di minuzie e pettegolezzi, di una dolce e maledetta eco remota.

 

GRANDE SECOLO D'ORO E DI DOLORE
Vincenzo Pardini
Il Saggiatore, 355 pp., 21 euro

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