La truffa come una delle belle arti

Gianluca Barbera
Compagnia editoriale Aliberti, 220 pp., 17 euro

    Il romanzo di Gianluca Barbera è un libro divertente. Lo è nel senso etimologico del termine perché porta il lettore a volgere il suo sguardo in un’altra direzione, come in un gioco di specchi e di rifrazioni. Il testo è costruito come una sorta di lunga intervista che un giornalista, per tutto il romanzo chiamato “signor Ricci”, fa al discendente di una famiglia di truffatori, i Lopiccolo. Carl Peter Lopiccolo è malato e senza una lira e si trova in un ospedale a Rio de Janeiro e per soldi accetta di raccontare la sua storia e quella della sua famiglia per un libro inchiesta di un grande editore italiano. In questo modo, partendo dal 1842 e arrivando ai nostri giorni, Carl imbastisce non solo la propria autobiografia familiare ma anche una storia dell’inganno. Diverse sono le tipologie di truffa si va da quelle da circo Barnum del capostipite fino a quelle finanziarie, legate ai titoli tossici dei giorni nostri, ma a colpire del racconto è sempre lo stupore continuo dell’io narrante su come sia facile ingannare la gente, di come alla fine l’animo umano sia disposto a credere a quel minimo di felicità che la truffa promette.
    La truffa si può riassumere, per Lopiccolo, in due parole: felicità e menzogna,  che paradossalmente ci restituiscono bene alcune caratteristiche del romanzo in questione. In primo luogo la felicità: “La truffa come una delle belle arti” è un romanzo felice per il modo con cui Barbera ci racconta le diverse vicende.
    E’ un romanzo divagante, che non ha un vero e proprio centro, si perde, ritorna sui suoi passi, torna indietro per poi riannodare le fila del racconto.  Proprio come s’addice all’oralità sui cui è costruito il testo, siamo al grado zero della narrazione: due persone passano il tempo raccontandosi le proprie avventure finché non arriva la sera e il sonno. E il lettore sente questa felicità del raccontare, di chi vuole tenere viva l’attenzione del suo ascoltatore, come nei primi capitoli quando Carl parla di Petreus “Pepè” Lopiccolo e del suo inganno della sirena. Presentata come la sirenetta che ispirò Andersen e la sua fiaba, essa non era altro che “un banale innesto tra la testa e il torso di uno scimpanzé e la coda di un tonno esiccato”, ma la credulità fu così contagiosa che la truffa finì per ingannare anche il Re delle due Sicilie (la descrizione del viaggio di Re Ferdinando lungo il suo regno, che è un racconto dentro il racconto, è non solo accurata e storicamente precisa, ma divertentissima).
    Anche lo stile, il lessico semplici e medi, con qualche punta di dialetto (sui cui anche l’io narrante ironizza), sono perfettamente “menzogneri”: infatti dietro appunto questa patina di svagatezza, di leggerezza che l’autore cerca di tenere per tutto il romanzo c’è un sostrato filosofico letterario ben connotato; Barbera come i Lopiccolo, di cui narra la storia, racconta al lettore una storia di truffe e camuffamenti e il lettore ci casca, perché il romanzo in generale è a sua volta una truffa – una storia falsa spacciata per verissima.  A lettura più attenta, però, si sente che il nocciolo oscuro della “menzogna” letteraria sta proprio in questa strenua ricerca dell’essere felici come ultima possibilità contro il male (non a caso un capitolo del romanzo è appunto “Il problema del male”).  Proprio in questo sottofondo di stile e di tematiche, “La truffa come una delle belle arti” mostra la sua vera natura, ovvero quella di essere un conte philosophe di un Candido che all’ottimismo della ragione ha preferito la bellezza bugiarda dell’arte e della felicità.


    LA TRUFFA COME UNA DELLE BELLE ARTI
    Gianluca Barbera
    Compagnia editoriale Aliberti, 220 pp., 17 euro