Foto di Daniel Enchev, via Flickr

L'autonomia da pensare per Milano

Alessandro Aleotti e Sergio Scalpelli

Da tempo si vagheggia confusamente intorno a una idea di città-stato che oscilla tra un improbabile passatismo e un’altrettanta velleitaria modellistica istituzionale

La questione spagnola riporta al centro del dibattito il tema istituzionale, inteso come la cornice dentro cui i territori si devono muovere per relazionarsi con i fenomeni globali. Il recente referendum lombardo e veneto ci dice con chiarezza che vaste aree settentrionali sentono il problema di restare dentro una dimensione statuale che viene percepita come soffocante, sia dal punto di vista fiscale che, soprattutto, da quello normativo. Tuttavia, il nostro scenario, a differenza di quello catalano, contiene peculiarità che finora ne hanno frenato l’esplosività: da una parte l’egemonia politica che il leghismo ha esercitato su questi temi e dall’altra una marcata differenziazione che, nel caso lombardo, continua a caratterizzare Milano. Spesso, nei momenti di svolta della storia (e, sul tema in oggetto, ne stiamo certamente vivendo uno), la politica offre degli assist inaspettati.

 

Il più evidente è certamente la metamorfosi della Lega di Salvini che, da partito dichiaratamente “indipendentista”, si è trasformata in un movimento nazionale di protesta populista, il cui riferimento territoriale passa oggettivamente in secondo piano, al punto che l’eliminazione della parola “Nord” dal simbolo (unita alla marginalizzazione di Umberto Bossi) viene vissuta come la semplice certificazione di un processo già compiuto e metabolizzato. Questa inedita liberazione dello spazio politico “indipendentista” riporta nella disponibilità di tutti i soggetti (vecchi ed eventualmente nuovi) il tema della configurazione istituzionale attraverso cui le aree del nord dialogano con il mondo. Come anzi detto, però, vi è un’ulteriore particolarità nel nostro scenario: la dissonanza milanese. Non che Milano si senta più “italiana” del resto del nord, ma certamente il suo rapporto con lo stato-nazione viene vissuto da posizione diverse (e certamente di maggior “autorevolezza”) rispetto a quelle  del vasto nord meno urbanizzato. La forza di Milano è tale da autorizzare per la città l’apertura di un tema istituzionale nuovo e distinto da quello lombardo-veneto. Da tempo, a Milano, si vagheggia confusamente intorno a una idea di città-stato che, tuttavia, oscilla tra un improbabile passatismo e un’altrettanta velleitaria modellistica istituzionale. Se,  invece, questo tema venisse seriamente connesso agli snodi di potere globale che transitano da Milano (in primo luogo la concentrazione di aziende multinazionali), la questione assumerebbe una forza che deriva,  non dal desiderio  di un circuito politico “amatoriale”, ma dalle esigenze dell’intera società milanese. La contemporaneità ci mostra che le città globali, da New York a Singapore, vivono uno status dominante rispetto agli altri contesti e, quindi, non c’è alcun motivo per cui Milano non debba voler appartenere a una dimensione di cui possiede tutte le caratteristiche intrinseche. Posta nei luoghi e nelle menti giuste, l’idea di dare a Milano una dimensione autonoma e indipendente, rappresenta certamente una proposta di straordinario appeal politico e sociale. Quando la storia ci passa accanto, è grave non cogliere le opportunità politiche che essa offre.

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