Merkel e la fine della Germania crudele

Giuliano Ferrara

Le elezioni tedesche sono il simbolo di una svolta culturale. Grazie ad Angela la Germania predatoria è solo un ricordo e la competenza torna a essere l’unico argine contro i cambiamenti azzardati. Elogio del paese della soddisfazione

Angela Merkel o della soddisfazione. La rilevanza non solo politologica delle elezioni tedesche del 24 settembre è nella parola “soddisfazione”. Dovrebbe essere una parola proibita, in teoria: basti pensare a Trump e alla elegia di un’America disperata e tradita o alla Brexit come ribellione alle leggi di Bruxelles e allo sradicamento di un fiero e isolano carattere della nazione; basti pensare all’idea di successo del “momento populista” in molte parti d’Europa, per un breve periodo Gemania compresa, l’idea di un rimpiazzo migratorio e islamico dell’intera civilizzazione giudeo-cristiana. Già gli sbandieramenti europeisti e globalizzatori di Emmanuel Macron in Francia, e la sua speciale tendresse opposta al caravanserraglio nazionalista di Marine Le Pen, avevano segnalato la curiosa controtendenza, ma quel fenomeno era ed è una cosa nuova, inaspettata. Merkel è la Mutti, mica un giovane promettente rampollo del sistema Rothschild, la sua curatela dura da dodici anni, il suo è un caso unico di campagna elettorale incentrata su una personalità simbolo dell’esperienza, della competenza, dell’equilibrio, della continuità e del mantenimento di una promessa di sobrio benessere nell’ambito del possibile, fino alla noia più devastante. Una soddisfazione, altro che muri, non incrinata dall’arrivo di un milione di migranti siriani nell’estate del 2015, mica dieci anni fa. 

 

Silvio Berlusconi in Italia aveva anticipato tutto fin dal 1994. Si vince promettendo, make Italy great again, un nuovo grande miracolo italiano. Ed è in effetti come una costante della curva elettorale, dicono tutti gli osservatori esperti: non sono i bilanci sul passato di governo e sullo stato della società a far testo, sono gli slanci verso il futuro, anche acrobatici (e nel caso dei grillini fantasiosamente dementi) a determinare le retoriche del consenso. E dove lo mettiamo tutto il corteggio di argomenti analitici sulle società massificate dal sistema dei media vecchi e nuovi, dal reality ai social network? Qui l’affare si decide in comizi all’ombra della cattedrale medievale di Münster, davanti a una folla entusiasta di elettori coi capelli grigi, non sui magici schermi. La soddisfazione non era di casa nelle elezioni americane, nonostante la ripresa della crescita ad appena un anno dalle turbolenze generali del 2008, per due mandati di Barack Obama, e una disoccupazione ai minimi assoluti. Ma quale soddisfazione, ma quale Stronger Together, ci volevano muri alle frontiere, uomini come lo sceriffo Joe Arpaio, guerre commerciali con promessa di posti di lavoro a derrate, turpiloqui contro la stabilità immobile delle élite, altro che storie, ci voleva tutto questo casino per mettere un Trump alla Casa Bianca con 70 mila voti ben distribuiti nel collegio elettorale, e magari per mettere il Regno Unito fuori dalla porta dell’Europa, dopo tanti anni, con un due per cento raccolto tra i pensionati delle Midlands. 

 

L’insoddisfazione, fino alla disperazione, regnava sovrana nel cosiddetto immaginario internazionale, e ora, a meno di sorprese sempre possibili ma altamente improbabili, l’esitazione dominante e minacciosa di una Germania predatoria e crudele al centro di uno scenario di crisi dell’euro e del suo sistema è solo un ricordo, al quale si sostituisce un regime consociativo e insofferente perfino di una blanda alternanza, altro che ribellione, fondato sulla soddisfazione per i risultati di un ciclo di governo ultradecennale. Accidenti che svolta.

 

Pare che il diesel sia in estinzione sul lungo periodo o medio, e c’è chi dice che dalla crisi del complesso automobilistico, base storica dell’eccellenza tedesca e dei suoi surplus, con qualche disattenzione ambientalisticamente scorretta, possano arrivare segni o presagi infausti di qui a un mese. C’è anche chi è convinto che un eventuale governo della Cdu-Csu con i liberali sarebbe tutt’altro che una bonanza per un’Europa del sud tuttora in crisi, con la ripresa magari dei discorsi sul futuro a due velocità. Chissà. Per adesso non contano le emozioni e nemmeno i presagi, conta solo il registro di un consenso personale, diretto alla cancelliera e alla sua sperimentata abilità nel maneggio delle curve della storia nazionale e internazionale, qualcosa di molto simile a un grosso motore diesel. Nel giro di Angela, la cara Angela, una specie di strano amor nostro, si dice che molte grazie devono essere rivolte a Trump, che in Germania ha una popolarità del 5 per cento e un’opposizione d’opinione corrispondente al 95, perché ha mostrato il lato pericoloso dei cambiamenti azzardati. E Martin Schulz, nel tentativo di recuperare lo svantaggio presuntivo indicato dai sondaggi, pare voglia giocare appunto la carta Trump, come fece Schröder nel 2002 opponendo a George W. Bush il suo Sonderweg, imbastendo un conflitto sul ruolo mondiale della Germania e della politica di difesa, imbarcando i sentimenti pacifisti e riluttanti dell’opinione pubblica tedesca. Ma la soddisfazione, questo obeso orgoglio di essere passabilmente ricchi o comunque protetti, come la combatti?

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.