Giuliano Poletti (foto LaPresse)

Il futuro dell'Italia passa dai giovani, pensionati

Giuliano Cazzola

L’Italia è un paese innamorato delle pensioni al punto da preoccuparsi di tutelare i ragazzi di oggi per quando saranno anziani

E’ presto per tirare delle conclusioni sul confronto tra governo e sindacati sul tema delle pensioni. Al di là delle dichiarazioni laconiche ed un po’ esoteriche del ministro del Lavoro Giuliano Poletti, Marco Leonardi – che fa parte del pool di Palazzo Chigi – ha assicurato che c’è ancora tempo per riflettere. Del resto, da quanto è emerso dalle parole dei leader confederali, le organizzazioni sindacali sono più interessate a bloccare il collegamento automatico all’attesa di vita per i prossimi pensionati, piuttosto che trovare soluzioni per i giovani, che saranno pensionati in un domani ancora lontano. 

 

Anche in questa occasione l’Italia si rivela un paese innamorato delle pensioni al punto da preoccuparsi di tutelare i giovani di oggi per quando saranno anziani piuttosto che consentire loro di provvedere a se stessi lavorando. Ma di questo si parlerà quando verrà l’ora delle misure choc annunciate, a più voci, dal governo – un assegno mensile minimo di 600-620 euro a coloro ai quali la pensione verrà calcolata interamente con il sistema contributivo e che andranno in pensione a 63 anni e 7 mesi. 

 

Sembra assodato che non ci sarà la manomissione di uno degli aspetti più importanti (l’adeguamento automatico, appunto) delle riforme degli ultimi anni, almeno a leggere quanto ha affermato il vice ministro Enrico Morando nella sua ultima intervista al Corriere della Sera: "A mio avviso sarebbe un grave errore politico, oltre ad avere conseguenze economiche negative. Abbiamo appena introdotto l’Ape sociale e Ape volontaria. Se ci sono da fare integrazioni sulle categorie dei lavori usuranti, parliamone, è giustissimo. Ma mettere in discussione il meccanismo di adeguamento alle speranze di vita, che peraltro crescono più lentamente del previsto, significa scassare il sistema. Il contributivo si regge su calcoli attuariali, sennò non lo è’’. Morando, infatti, ha presente la dura reprimenda della Ragioneria generale dello stato (e dello stesso presidente dell’Inps, Tito Boeri) nei confronti della proposta estemporanea dei presidenti delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato (la strana coppia di Cesare Damiano e Maurizio Sacconi), ma ricorda pure il caveat della Commissione europea incluso nel documento del febbraio scorso a commento dei provvedimenti in materia di pensioni previsti nella legge di bilancio per il 2017 (‘’va osservato che il bilancio 2017 – scriveva Bruxelles - contiene misure parzialmente in controtendenza rispetto alla riforma Fornero del 2012, in grado di aumentare leggermente la spesa pensionistica nel medio periodo, che il citato indicatore di stabilità a lungo termine ancora non include’’). Eppure non è il caso di stare tranquilli. 

 

Le forze che spingono per mettere in mora questo cruciale collegamento sono potenti e contano sull’arrendevolezza tipica dei mesi prossimi a una competizione elettorale che vedrà i partiti e i movimenti non avere alcun ritegno nel fare promesse purchessia, pur di incassare qualche voto in più. A cominciare dalle prossime settimane, va poi messa in conto sul nervo scoperto dell’età pensionabile un’offensiva mediatico-televisiva come quella che abbiamo conosciuto nel corso del 2016 sul tema della flessibilità del pensionamento (e che poi ha indotto il governo a inventarsi – per fortuna – la cabala dell’Ape nelle sue diverse versioni). 

 

Venendo poi a quanto circola a proposito degli strumenti di garanzia per le pensioni delle giovani generazioni l’idea sarebbe quella di lavorare, con il bisturi, intorno a quanto prevede la riforma Fornero per coloro a cui è applicato interamente il sistema contributivo (ovvero coloro che hanno iniziato a lavorare a partire dal 1° gennaio 1996). Attualmente le regole stabiliscono che questi soggetti potranno andare in quiescenza di vecchiaia all’età di volta in volta prevista purché il loro assegno sia almeno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (ovvero a circa 750 euro mensili lordi). La proposta in discussione riguarda una riduzione del parametro ad 1,2 e un miglioramento della possibilità di cumulo tra pensione e assegno sociale (dal 33 per cento al 50 per cento). Pertanto i 600-700 euro di pensione di cui si parla non sarebbero una garanzia, ma il risultato ipotizzabile in conseguenza di queste modifiche.

 

Per quanto riguarda invece la pensione anticipata dei lavoratori interamente nel calcolo contributivo, le norme vigenti consentono di ritirarsi a 63 anni (più l’adeguamento) facendo valere 20 anni di contributi, purché la pensione percepita sia almeno pari a 2,8 volte l’ammontare dell’assegno sociale (1.500 euro lodi mensili circa). I sindacati – abbacinati da un’età pensionabile più ridotta – puntano le loro carte su di una consistente riduzione del parametro, senza rendersi conto che in tal modo maltrattano un altro obiettivo – oltre alla sostenibilità – che dovrebbe essere garantito da un sistema pensionistico equilibrato: l’adeguatezza dei trattamenti. 

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