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Per sconfiggere il pol. corr. le università rimettano a tema la verità

Giovanni Maddalena
La libertà definita come poter fare e dire quello che si vuole fino a quando non si limiti o si danneggi qualcun altro è una regola i cui confini rimangono vaghi. Quando poi c’è di mezzo l’educazione il problema diventa insolubile: posso dire quello che voglio o posso dire solo quello che la maggioranza accetta come giusto?

Alcuni segni di insofferenza verso gli eccessi del politically correct e verso il rischio della poca originalità di pensiero del nostro mondo culturale occidentale iniziano a emergere. In questo senso la lettera che la University of Chicago ha mandato a tutte le matricole di quest’anno, e già documentata dal Foglio qualche giorno fa, merita qualche ulteriore commento. Il fatto è che negli ultimi anni è cresciuta negli Stati Uniti la cultura dei trigger warnings e dei safe places insieme alla tendenza a cancellare le conferenze con relatori controversi.

 

I trigger warnings sono degli avvisi che segnalano contenuti “delicati” che potrebbero urtare la sensibilità di qualcuno. Gli studenti possono richiedere che alcuni passaggi dei testi, temi o autori che potrebbero traumatizzare siano segnalati cosicché li si possa evitare. Gli stoici potrebbero essere pericolosi per chi ha pensieri depressivi o suicidi, Dante per chi appartiene a una religione diversa da quella cristiana. I safe places sono invece posti dell’università dove si è sicuri che nessuno mi metterà in difficoltà sulle mie credenze. Iniziata come difesa dalla discriminazione sessuale, la cultura dei safe places può applicarsi a ogni credenza o appartenenza. Un professore può indicare il proprio ufficio come safe place in questo senso, garantendo che in quel luogo non si metteranno in discussione le convinzioni degli studenti. Infine, se un relatore è considerato controverso e riceve qualche contestazione da parte degli studenti, è facile che la conferenza sia cancellata.

 

Nella sua lettera l’Università di Chicago rigetta questo genere di cultura e di strumenti. La ragione presentata dal Dean of students è che l’Università crede nella libertà di espressione (primo emendamento della costituzione americana), pensa che “la diversità di opinioni e di provenienza sia una ricchezza fondamentale” e che “tutti debbano avere la libertà di esporre e di esplorare una vasta gamma di idee”. Il dibattito è interessante. Il ragionamento si basa infatti sulla premessa che il rispetto dell’altro non possa limitare le proposte e le critiche, neanche quando sono fatte a credenze o convinzioni personali. Ancora più originalmente, la University of Chicago dice che occorre approfondire e verificare i propri ideali di partenza, a differenza di quanto viene normalmente detto dalla mentalità accademica dominante. La critica implica una coraggiosa verifica, che non significa né scetticismo sul proprio passato né mancanza di confronto per un malinteso rispetto.

 

La lettera della celebre università è un piccolo segnale che fa emergere uno dei nodi concettuali del liberalismo. La libertà definita come poter fare e dire quello che si vuole fino a quando non si limiti o si danneggi qualcun altro è una regola i cui confini rimangono vaghi. Quando poi c’è di mezzo l’educazione il problema diventa insolubile: posso dire quello che voglio o posso dire solo quello che la maggioranza accetta come giusto? E, d’altro canto, cosa limita o danneggia l’altro? Se uno si sente offeso dall’insegnamento degli stoici o di Dante, in virtù di cosa si stabilisce che l’insegnamento debba andare avanti lo stesso?

 

Non è un dibattito vacuo. Quando lo si applica alle teorie gender o revisioniste, ai temi religiosi o esistenziali, alle materie che hanno a che fare con la vita sociale e politica, il dramma tra diritti individuali e la libertà di espressione diventa inestricabile. Il problema di fondo è che ogni concezione di libertà senza riferimento alla verità  non trova un equilibrio. E’ la verità che limita la libertà di espressione e, d’altro canto, che decide quando il confronto, sebbene doloroso, è necessario e salutare. La University of Chicago non arriva a riproporre il tema della verità, eppure, tra le varie idee da esplorare, c’è anche questa: che la verità non significhi violenza o determinismo e che, senza di essa, la libertà diventi o violenta – imponendo agli altri il proprio pensiero – o cieca – impedendo ogni confronto in nome del rispetto dell’individuo. Speriamo che, a Chicago, fatto il primo passo contro la moda del momento e contro un’idea di dialogo come semplice non-confronto o confronto solo apparente, abbiano il coraggio di rimettere a tema, in forme nuove, l’antica questione della verità.