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Il Foglio sportivo

Come si sblocca la testa di un campione

Annagiulia Dallera

I mental coach Nicoletta Romanazzi, Stefano Massari e Pietro Trabucchi si raccontano: “Così aiutano gli atleti a migliorare le prestazioni”

Vi siete mai chiesti cosa ci sia dietro il diritto e il rovescio di Matteo Berrettini o come faccia Marcell Jacobs ad andare così veloce? Molto lo fa la preparazione atletica. Ma conta tanto anche la preparazione mentale. Mental coach e psicologi dello sport sono coloro che “sussurrando agli atleti” riescono a fargli tirare fuori il meglio di loro stessi. Gli fanno superare blocchi, paure, difficoltà. Li aiutano a conoscere il loro potenziale e a utilizzarlo per raggiungere gli obiettivi. Come ci riescano dipende molto dall’approccio che è proprio di ciascuno di questi “allenatori della mente”.

 

 Nicoletta Romanazzi è famosa per essere la mental coach di Lamont Marcell Jacobs nell’atletica, Luigi Busà e Viviana Bottaro nel karate, le cui imprese olimpiche a Tokyo ci hanno tenuti incollati al televisore. Nel suo roster di 15 atleti troviamo anche calciatori, nuotatori, golfisti, persino un fantino del Palio di Siena. Nicoletta lavora molto con il respiro e con l’ipnosi da performance. La sua missione è far raggiungere ai suoi atleti uno stato di massima concentrazione, quella condizione che gli permette di accedere a tutte le loro risorse e ad ottenere la miglior performance possibile. Con ogni sportivo fa un incontro ogni due settimane. E i risultati si vedono. Marcell Jacobs prima di conoscerla aveva già un grande potenziale, ma non riusciva a esprimerlo perché spesso, durante una gara, andava in tilt. Sentiva molto la pressione esterna dei fan, dei giornalisti, degli avversari, delle persone intorno a lui. Grazie a un lavoro durato un anno, la sua mental coach è riuscita a far uscire il campione che era dentro di lui. “Quando fa dei gesti rituali prima di una gara nella sua testa sta pensando: mi occupo solo di me, della mia corsa, senza preoccuparmi di ciò che succede intorno” ci rivela Nicoletta.

  

Per le Olimpiadi di Tokyo hanno lavorato su qualsiasi evenienza potesse capitare. Ricordiamo tutti le immagini di un Jacobs fermo ai blocchi, quando al primo sparo c’era stata una falsa partenza dell’atleta inglese Zharnel Hughes. Tutto merito della freddezza mentale conquistata con il lavoro fatto con Nicoletta Romanazzi. E poi il grande traguardo raggiunto prima di tutti gli altri con un impressionante tempo di 9’’80 nei 100 metri: “Marcell non voleva neanche correrla quella finale” confida Romanazzi. Fondamentale anche in questo caso il suo intervento che lo ha riportato nella condizione mentale giusta. Luigi Busà voleva mollare il karate prima di conoscere Nicoletta. Aveva vinto tutto quello che si poteva vincere e aveva deciso che non voleva neanche andare alle Olimpiadi perché stanco ed esausto. Con la Romanazzi qualsiasi indecisione è svanita. “Doveva darsi modo di affrontare le proprie insicurezze e fragilità e rendersi conto che lui non era solo karate e questo gli ha permesso di aprirsi a tante cose nella sua vita”, racconta Nicoletta del suo atleta. Non sappiamo a che cosa si sia aperto nella sua vita personale, ma sicuramente ha aggiunto alle già numerose vittorie una medaglia d’oro olimpica nel karate kumite.  

  

Illustrazione di Nicolò Canova

 

Viviana Bottaro aveva avuto un incidente un anno prima delle Olimpiadi: tibia e perone rotti e una frattura scomposta alla caviglia. Solo grazie a un lavoro mentale, l’unico che potesse veramente svolgere in quel periodo, Viviana è riuscita a superare il dolore, l’infortunio, giornate intere in fisioterapia e a conquistare il bronzo olimpico nel karate kata. E ogni volta che uno dei suoi atleti gareggia, è un po’ come se anche Nicoletta fosse lì con loro. “Con questo lavoro si scende in profondità dentro noi stessi: si condividono cose importanti e si crea un rapporto. Le persone non sono più clienti. Ci tengo e ci sono per loro”. Nicoletta Romanazzi non per niente era nella lista degli invitati al matrimonio di Marcell con Nicole Daza il 17 settembre. Anche il mental coach Stefano Massari non rimane sui campi da tennis quando lavora con Matteo Berrettini che segue ormai da 10 anni. 

Insieme, a casa di Massari, hanno guardato film di Tarantino, Kubrick, Sergio Leone. E ai film si è aggiunta la lettura. Massari ha iniziato a regalare a Matteo dei libri di autori americani come Edward Bunker, uno scrittore che ha passato molti dei suoi anni in carcere. “Non a caso una delle serie preferite di Matteo è Prison Break”, dice Massari. Arricchiscono la sua libreria anche Bukowski, Hemingway e Williams. Insomma, se questo è il segreto per diventare il 15esimo tennista più bravo al mondo, forse dovremmo iniziare tutti a leggere un po’ di più. “Sono convinto che nei momenti topici dei match, quando Matteo è in campo da tre ore e mezza, non ha più energie, dentro di sé trova Hemingway o Kubrick e in qualche modo lo aiutano ad andare avanti”.

Ma il coaching “culturale” non è riservato solo a Matteo Berrettini. Anche gli altri 30/40 atleti di Massari ne beneficiano. Negli anni il mental coach ha organizzato incontri in cui invitava esperti che spiegassero fatti di storia, come la strage delle Fosse Ardeatine o la letteratura, come i canti della Divina Commedia. Tra gli sportivi che segue anche Leonardo Fioravanti, il primo surfista italiano a qualificarsi alla World Surf League e Lorenzo Marsaglia, campione di tuffi agli ultimi Europei di Roma. Massari si concentra molto anche sulle potenzialità individuali nelle sue sessioni di coaching. “Le qualità di Berrettini sono sicuramente il suo desiderio di conoscenza, l’audacia, il fatto che sappia prendere delle decisioni rischiose, il suo amore per il bello e l’eccellenza. Un amore per l’eccellenza che però rischia di sfociare nel perfezionismo e che può diventare fonte di dolore e di frustrazione. Abbiamo lavorato su questo”.

Le loro sedute si intensificano quando Matteo è coinvolto in qualche slam o, come negli ultimi giorni, in  Coppa Davis e alla Laver Cup . “Ci sentiamo un giorno sì e un giorno no, tra un incontro e l’altro. Ragioniamo sulla partita che ha giocato e su quella che deve giocare. Quando non ci sono tornei ci sentiamo una volta ogni 10 giorni. Mi capita anche di andare a Montecarlo per stare di più con lui”. Insomma, la loro è ormai un’amicizia, un legame che arricchisce l’uomo e l’atleta. Massari non vuole però prendersi meriti del successo di Matteo come tennista. “Se lui è migliorato quanto sono migliorato io grazie al nostro rapporto, allora sono molto felice”. Particolare il percorso di Massari prima di arrivare al coaching. Laureato in scienze politiche alla Sapienza di Roma, ha un passato in un’agenzia pubblicitaria dove già seguiva e supervisionava i giovani assunti. Un tratto del suo carattere che lo ha poi portato, insieme alla scoperta di questo mondo attraverso dei corsi, a scegliere il mental coaching come carriera.

Altra faccia della medaglia lo psicologo dello sport Pietro Trabucchi che da anni si dedica alle squadre Nazionali di Ultramaratona e alla squadra olimpica di canottaggio, oltre a seguire sportivi che praticano alpinismo e altre discipline di resistenza. Trabucchi lavora molto anche sull’allenatore. “Do loro dei consigli per gestire il rapporto con gli atleti, su come approcciarsi e comunicare con loro perché non tutti hanno una formazione psicologica per farlo nel modo giusto”. Nel suo curriculum troviamo la preparazione di una spedizione in Groenlandia. Lui stesso ha partecipato alla traversata. Nel 2005 ha preso parte a una spedizione sull’Everest. Si potrebbe dire che è anche lui un atleta. Fondamentale il suo contributo nel momento in cui c’è uno stress di tipo emotivo legato alle difficoltà del percorso o alle dinamiche di gruppo. La preparazione della squadra per l’Everest è durata un anno, quella per la Groenlandia 3 mesi. Questo sempre a riprova di quanto la mente sia fondamentale per far sì che il corpo faccia il suo dovere. Spesso Trabucchi si è fatto portavoce del concetto di resilienza: “Bisogna tenere duro anche quando non c’è una gratificazione immediata. Quella arriva alla fine. È importante che anche nel proprio stile di vita lo sportivo faccia delle rinunce al piacere immediato, a uscire con gli amici, a bere due birre. Questo vuol dire essere professionisti”. È sempre più chiaro che senza una preparazione psicologica non si fanno record, non si scala l’Everest e soprattutto non si vince né contro se stessi né contro gli altri.