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Lotta scudetto

Il Milan non è la squadra più forte, ma è un treno che fila dritto

Giuseppe Pastore

Ieri sera al Bentegodi la squadra di Pioli se n'è infischiata della "fatal Verona" e ha vinto in modo convincente una partita tutt'altro che scontata. Le ultime due giornate saranno decisive: Atalanta e Sassuolo aspettano i rossoneri al varco e l'Inter è pronta ad approfittarne

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La pigrizia della nostra categoria, che spesso e volentieri si aggrappa a stantìe ricorrenze per mancanza di idee migliori, ha ridotto la lunga settimana preparatoria a Verona-Milan ai due fatali precedenti del 1973 e del 1990: come se Rafael Leao non dormisse la notte ripensando al signor Rosario Lo Bello, come se le giornate di Theo Hernandez venissero intossicate dal tormento dei cinque gol di Livio Luppi, Paolo Sirena e Franco Bergamaschi. Più istruttivo, semmai, raccontare il diritto della medaglia: allo stadio Marc'Antonio Bentegodi di Verona nel 1987 Arrigo Sacchi sfuggì all'esonero precoce pilotando il suo primissimo Milan a una vittoria per 1-0 che cambiò il verso della stagione e della storia rossonera; allo stadio Marc'Antonio Bentegodi di Verona nel 2002 Carlo Ancelotti trovò sull'erba un'altra vittoria primaverile, sempre in rimonta, che servì a qualificare il Milan alla Champions dell'anno successivo, finita in gloria a Manchester.
 

Nessuno chiede tanto a Stefano Pioli – non ancora, almeno. In realtà nessuno ha chiesto niente a Pioli fin da principio, così che la stagione del Milan si sta risolvendo in una lunga sequenza di occhi infantilmente sgranati non tanto per la qualità del gioco, ma per la determinazione e il puntiglio con cui giunge regolarmente al risultato, insensibile all'angoscia e alla pressione che è giusto tenere in considerazione al cospetto di una volata-scudetto così serrata. Nessuno credeva davvero che le ultime notti del Milan fossero turbate dai fantasmi delle due fatali Verona; ma dall'umanissima ansia di un obiettivo a portata di mano, questo sì. E invece no; o meglio, per switchare dall'ansia alla lucidità e approdare alla serenità di chi è in pace con sé stesso perché sta lavorando bene da mesi sono bastate due parole dette bene, quei “giusti comportamenti” di cui tutti gli allenatori si riempiono la bocca senza mai entrare troppo nel merito. Questo Milan – non la squadra più forte del campionato, non la più talentuosa, non la più esperta – è un treno che fila dritto, un film di Clint Eastwood magari non indimenticabile ma certamente affidabile, un inno alla buona amministrazione.
 

Naturalmente, man mano che si sale di quota, l'ossigeno inizia a scarseggiare. Una settimana a ciarlare di fatti di cinquant'anni fa e nessuno ha ancora sottolineato l'incredibile sciarada che attende Pioli di qui fino a fine stagione: Atalanta e poi Sassuolo, le squadre spartiacque della sua carriera milanista. A Bergamo, il 22 dicembre 2019, il Milan subì un'umiliazione che costrinse la società a cambiare tutto, dando il via libera al ritorno del totem Ibrahimovic e liberandosi di alcuni giocatori che erano ormai niente di più che pesi morti. Il ricordo dei saltelli beffardi di Gasperini sul 5-0, molto più doloroso di qualunque fatal Verona, accompagnò tecnici e giocatori nel lungo tunnel del lockdown, da cui il Milan uscì trasformato come per un'indecifrabile magia di cui, due anni e 189 punti dopo, non sono ancora del tutto chiari i motivi. Poi a Reggio Emilia, il 21 luglio 2020, mentre la squadra regolava il Sassuolo con una doppietta di Ibrahimovic, Pioli ottenne a sorpresa ciò che in fondo era giusto: il rinnovo del contratto, quando sembrava che tutto congiurasse a favore del guru tedesco Rangnick, che nel frattempo si è inabissato alla guida di un Manchester United senza capo né coda, seppur con Cristiano Ronaldo. L'Atalanta e il Sassuolo, due squadre che giocano e lasciano giocare, generose in difesa per tutto l'anno, figuriamoci a fine stagione. La conferma che le ultime Scilla e Cariddi che il Milan dovrà oltrepassare prima di avventurarsi nel mare aperto sono di natura psicologica, come sottolineava anche il formidabile Leao parlando di “ansia buona” a proposito di Milan-Fiorentina, quando il peso delle aspettative di 75mila tifosi tutti insieme aveva trasformato l'esultanza dopo il gol in un semplice sorriso di sollievo.
 

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Ieri sera a Verona, dove qualcuno ipotizzava il ripalesarsi di antiche maledizioni, al Milan è bastato rimanere felicemente sé stesso, una squadra da 80 punti in 36 partite senza che sulla locandina ci sia un nome scritto a caratteri più grandi degli altri, senza un deus ex machina imposto dall'alto, in cui il capocannoniere ha segnato appena dieci gol, in cui la sottovalutata Garde Noire Maignan-Tomori-Kalulu è un triangolo delle Bermuda in cui si perdono le tracce di tutti i centravanti avversari.
 

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Il Milan non è la squadra più forte, sta scritto qualche riga fa. Perché la squadra più forte è l'Inter: lo ha dimostrato di nuovo nei sessanta minuti di tempesta contro l'Empoli, crivellato da 37 tiri e quattro gol che potevano tranquillamente essere il doppio. Ma in queste fasi calde il calcio è soprattutto una questione di equilibri e l'inquietante prima mezz'ora di venerdì pomeriggio ha messo a nudo ancora una volta le inspiegabili fragilità di una squadra campione in carica in cui troppi giocatori sembrano aspettare il vuoto d'aria per esaltarsi, dando il loro meglio nello strappo nervoso invece che nel mantenimento di una rassicurante velocità di crociera – e prima o poi, vedi Bologna, l'incidente arriva. Come dicono i fidanzati sdolcinati alle loro dolci metà quando hanno qualcosa da farsi perdonare: quando ti arrabbi sei ancora più bella. Il problema è che l'Inter si arrabbia troppo facilmente, una frequenza di sbalzi d'umore eccessiva e inadeguata al triangolino di stoffa che porta cucito sul petto. E la settimana da cuori in tempesta che l'Inter vivrà da mercoledì a domenica sera, dalla finale di Coppa Italia all'ultima chiamata a Cagliari, si preannuncia degna di un Gran Premio di Gilles Villeneuve, di cui ieri ricorrevano i quarant'anni dalla scomparsa: una lunga serie di tornanti sempre in bilico tra la gloria e il disastro.

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