Stefano Pioli con Luciano Spalletti durante Fiorentina-Inter del 24 febbraio 2019 (foto LaPresse) 

il foglio sportivo

Verso Milan-Napoli. Pioli e Spalletti, amici mai

Giuseppe Pastore

L’incrocio tra due tecnici che si sono sempre fatti  la guerra. Fredda

Scene da una guerra fredda. Atto primo: Inter-Roma, 26 febbraio 2017. In conferenza stampa domandano a Pioli: che ne pensa del fatto che la Roma ha avuto dodici rigori a favore e l’Inter solo due? “È un dato che a fine stagione potrebbe pesare”. Costretto a vincere per restare agganciato al trenino della Champions League, Pioli getta i suoi all’attacco o forse allo sbaraglio: Spalletti lo surclassa e vince facile 1-3, anche se all’Inter manca un penalty sullo 0-2. Nel dopo-partita Spalletti fa il superiore: “L’anno scorso ci hanno dato un rigore in 19 partite e non ho mai detto nulla. Parlare di queste cose è come dare un alibi ai calciatori”.

Atto secondo: Fiorentina-Inter, 24 febbraio 2019. è la partita del rigore del 3-3 concesso al centesimo minuto da Abisso per inesistente fallo di mano di D’Ambrosio, con Spalletti – nel frattempo divenuto interista – che al Club di Sky piazza un’intemerata tremenda di sette minuti contro arbitro e giornalisti. Le parti in commedia si rovesciano: Pioli condivide che si è trattato di errore ma sottolinea la buona fede del Var. È la solita storia: il tecnico in difficoltà, o semplicemente quello più indietro in classifica, monologa sulla fuffa per cambiare discorso.

Sul predicare bene e razzolare male degli allenatori si potrebbero scrivere enciclopedie. Prendiamo atto del fatto che, da quando è al Milan, Pioli non ha ancora sbagliato una singola intervista, evidentemente consapevole di uno standing superiore alla metà classifica in cui si è dibattuto fino al 2019. Al limite si concede qualche fuori programma da guru (o para-guru), in linea con gli attestati di stima che stanno arrivando da tutta Europa, per ultimo Klopp. Eppure basta un periodo di bassa marea, un pareggio e due sconfitte, per far rimontare l’alta pressione. Tutti pretendono lo scudetto, a cominciare da una tifoseria atterrita dalla prospettiva della seconda stella nerazzurra: sia chiaro, avvertono tutti, arrivare dietro l’Inter sarebbe una delusione, se non proprio un disastro. Una volta i giocatori sotto tono venivano liquidati come “fuori forma”, e morta lì; invece nel Milan di oggi tutto è caso, tutto è intrigo, un contratto in scadenza, una polemica social, un bollettino medico enigmatico oppure addirittura mai uscito come nel caso di Rafael Leao, uno dei giocatori fondamentali per l’Arancia Meccanica di Pioli che però è infortunato da un mese (sono tempi confusi e certe volte gli uffici stampa ci mettono del loro).

Spalletti pare a sua volta ancora più sciupato, logorato da una carriera da infinito piazzato, un curriculum lussuoso da oltre 500 panchine in Serie A che però, in mancanza dello scudetto, a 62 anni gli sta presentando il conto. A poco servono i complimenti di De Laurentiis, peraltro notoriamente a orologeria, se la Piazza ha già giudicato. Fino a qualche anno fa, era buona educazione che per maturare un’impressione piena e compiuta su una gestione tecnica servissero almeno due stagioni complete, forse tre. Ora s’è smarrita ogni cautela e i giudizi sugli allenatori sono degni di “Memento”, il primo capolavoro di Christopher Nolan: la memoria breve è sparita e di un tecnico si ricordano solo l’ultima partita e casomai i fallimenti lontani, spesso mal riportati (a cominciare dai famigerati casi Totti e Icardi, in cui si fatica a collocare Spalletti dalla parte del torto).

La prima parte della stagione è già un ricordo, l’Insigne intraprendente di settembre-ottobre di nuovo oscurato da quello abulico e venale dell'autunno inoltrato. La cosa curiosa è che Spalletti è sì l’allenatore più esperto del campionato, ma anche il più lunatico e irregolare, accumulatore di stress in questi tempi dove sarebbe meglio semplificare, cane sciolto in una categoria di colleghi quasi tutti irregimentati. Non ha grossi amici a parte Andreazzoli, che pure domenica gli ha rovinato la festa; non ha nemmeno maestri. Sul suo lato oscuro, da maschera tragica e fool shakespeariano insieme, circolano aneddoti terribili e gonfiati all'eccesso. La sconfitta lo coglie solo, incupito, come se una Champions tranquilla (obiettivo mancato dal Napoli nelle due stagioni precedenti, ma oggi ampiamente alla portata) fosse routine. Basterebbe altresì una vittoria a San Siro per riaccendere le luminarie, in una totale assenza di equilibrio, senza più una visione a lungo periodo che ormai ad alti livelli sopravvive solo nel Mulino Bianco Atalanta, per ovvi motivi di bassa pressione.

Spalletti non ha mai perso contro Pioli, e dunque Pioli non ha mai battuto Spalletti. Peggio: per due volte è stato esonerato (al Parma nel 2007, alla Lazio nel 2016) dopo due rovinose sconfitte contro l’uomo di Certaldo, pur non avendolo mai davvero affrontato “ad armi pari”, da squadrone a squadrone. Seguendo il corso delle narrazioni umorali che facciamo tutti, un mese fa Milan-Napoli sarebbe stata stellare, la riedizione in chiave contemporanea di Gullit contro Maradona, fiumi di parole sull’eterno ritorno degli anni Ottanta ora che è pure uscito il film di Sorrentino. Oggi invece induce soprattutto alla riflessione sull’eterno stress del calcio-ogni-tre-giorni che Pioli giura di adorare, divertendosi come un bambino nello studio tattico dell’avversaria di turno, mentre Spalletti dimostra di accusare. Ironicamente, Pioli è al Milan anche perché Spalletti, non trovando l’accordo con l’Inter sulla buonuscita, preferì rimanere disoccupato due anni invece che tornare sul campo di battaglia (del resto Luciano ha un agriturismo bellissimo). Probabilmente non si ameranno mai e mai andranno oltre la tartufesca cortesia delle strette di mano pre-partita: eppure entrambi portano a spasso con fierezza la loro testa calva e lucente come la luna, ogni settimana dubbiosi se sia luna crescente o calante.

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