Il marciatore altoatesino Alex Schwazer durante la sua ultima 50 km di marcia (foto LaPresse)

Il corpo di Schwazer sacrificato sull'altare della caccia alle streghe moderna: il doping

Giovanni Battistuzzi

La squalifica di otto anni al marciatore altoatesino e tutto quello che non torna nel caso. Non si può parlare di complotto, ma molte sono le cose da chiarire nella vicenda.

Punto, set, game. La partita è finita, la sentenza data, la carriera finita. Alex Schwazer se ne torna a casa e questa volta per sempre. Otto anni di squalifica toglie ogni possibilità di ritorno a un atleta di 31 anni. Il Tribunale di arbitrato sportivo ha infatti accolto in toto le richieste della Iaaf, la federazione internazionale di atletica leggera: nessuna attenuante, pena massima. Colpa di quelle tracce di testosterone sintetico trovate nelle urine e rilevate nel controllo antidoping del primo gennaio. Colpa del fatto di essere recidivo, di essere già stato condannato per utilizzo di sostanze dopanti all'ultima Olimpiade, quella di Londra 2012. Colpa, soprattutto, di quel clima olimpico di caccia alle streghe che nel doping vede il nemico supremo, assoluto, da abbattere. E così serviva un monito, l'esemplarità della pena, un verdetto che non potesse lasciare dubbi. E' arrivato mercoledì in serata e ha colpito l'altoatesino.

 

"Sono distrutto", ha detto il marciatore, "non conosco ancora le motivazioni ma mi pare che si siano limitati a una semplice constatazione tecnica". Il giudizio si basa sulle prove fornite dai laboratori: nelle urine di Schwazer c'erano tracce di testosterone sintetico, questo è vietato dal regolamento e quindi l'atleta va squalificato. Ed essendo la seconda positività riscontrata ecco scattare la squalifica massima. Questo dovevano fare i giudici a pochi giorni dalla prova olimpica di marcia e questo hanno fatto. Non c'era tempo di capire perché il primo test sul sangue dell'atleta aveva dato esito negativo come negli altre 14 volte nelle quali è stato controllato; perché è stato eseguito un esame di secondo livello in presenza di anomalie nel passaporto biologico – il file che contiene tutti i valori ematici e fisiologici di ogni atleta; perché è stato effettuato solo tre mesi dopo la richiesta di analisi; perché sono passati 40 giorni dal riscontro della positività (13 maggio) alla notifica al marciatore (21 giugno).

 


La conferenza stampa di Alex Schwazer e del suo preparatore Sandro Donati il giorno dopo la notifica della positività (foto LaPresse)


 

L'altoatesino aveva cercato di ricostruirsi una carriera dopo i fatti di Londra, il doping, i consulti con il grande ripudiato dello sport, il dottor Michele Ferrari. Si era affidato al tecnico Sandro Donati, uno che nella sua carriera di preparatore si è sempre battuto contro il doping e che ora lo difende, accusando: "E' evidente un fine persecutorio nei confronti si Alex. Di riffa o di raffa dovevano eliminare Schwazer. Non parlerò della mia persona, ho una certa età. Ad Alex hanno stroncato la vita", "è evidente che era facile incolpare uno con un precedente. Poi avete visto con quale tecnica, anche medici interessati da procedimenti giudiziario – ha continuato in conferenza stampa –, si siano affrettati a definirlo persino 'bipolare'. Alex è lineare, coerente, semplice, affidabile. Ha sbagliato una volta, con sua quota di responsabilità coinvolgendo anche la Kostner in una cosa in cui non entrava niente. Ma in quel periodo è stato abbandonato a sé stesso".

 

 

Il punto non è però la buona fede di Donati, la positività riscontrata a Schwazer o i precedenti che hanno portato alla squalifica del marciatore azzurro. Altro pesa in tutta questa vicenda e in questa sentenza: è il clima, la volontà di dimostrare che la fallibilità dell'antidoping non sia poi così fallibile, che la giustizia prima o poi trionfa e che i furfanti vengono scovati, giudicati ed espulsi, che i dopati sono solo cellule impazzite all'interno di un organismo sano e proprio perché sano capace di trovare le contromisure per espellerle.

 

Negli ultimi giorni si è parlato di complotto, di una premeditazione per far fuori Schwazer. Tutto ciò è al momento indimostrabile e anzi improbabile. Quello che invece è reale è che alla Iaaf serviva dimostrare che la sua condotta è stata inappuntabile e che lo sforzo di pulizia, sbandierato dal presidente Sebastian Coe, ex vicepresidente della Wada – l'agenzia mondiale antidoping –, continua a raccogliere frutti. E' stato così per la Russia. E' stato così per il marciatore altoatesino. Prove, più o meno inconfutabili, sono state portate a poche settimane dall'inizio dei Giochi olimpici, in un clima che si stava facendo sempre più teso, con la voglia di sport pulito che ha rischiato di sconfinare a volte nel giustizialismo. Perché il doping è fango e le Olimpiadi dei buoni sentimenti, della pace sportiva che viene come un sollievo dopo mesi di barbarie jihadista 24 ore su 24, non potevano essere sporcate. E così è stato. C'è stato un repulisti di vertici e atleti, di allenatori e preparatori. L'importante era dimostrare che le contromisure erano state prese e che lo sport poteva continuare a essere considerato credibile. E così ne hanno fatto le spese i chiacchierati, coloro che avevano avuto precedenti. Il caso dell'altoatesino è emblematico di questo. Il ritardo e la poca volontà di trattare una pratica non perfettamente chiara, la sostanza illecita trovate soltanto a un secondo esame, nonostante il testosterone sintetico solitamente viene rilevato con una certa facilità già a una prima analisi, l'allungamento dei tempi di notifica. Tutto ciò appare come un tentativo di arrivare alla vigilia dei Giochi, affrettare un processo e dimostrare la buona volontà di combattere i furbetti del doping.

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