(Foto di Ansa) 

come cambiare marcia

Scuola, le riforme necessarie per restituire ai giovani il futuro

Vincenzo Galasso

La pandemia e quasi due anni di Dad hanno peggiorato ulteriormente la situazione della scuola italiana. Oggi le risorse per cambiare ci sono: dall’orario delle lezioni alla valorizzazione dei docenti, ai divari nord-sud da sanare

Nove maggio 2022: il giorno europeo nell’anno che l’Europa dedica ai giovani. Perché l’Europa ai giovani ci pensa. Il piano per riprendersi dalla pandemia si chiama Next Generation Eu. Giusto così: i giovani hanno sofferto molto durante la pandemia e gli strascichi futuri del Covid-19 riguarderanno soprattutto loro.


In Italia i giovani sono pochi – siamo un paese demograficamente vecchio – e contano ancora meno. Durante la pandemia, le scuole italiane sono rimaste chiuse più di quelle degli altri paesi europei. Tutti a casa in Dad. Ma tra marzo e giugno 2020, nelle scuole primarie più di un alunno su sei non si è mai collegato per fare lezione online. Meno di tre alunni su cinque hanno seguito assiduamente, almeno quattro giorni alla settimana. Tre quarti degli studenti hanno avuto problemi di connessione. Quasi uno su due di concentrazione e motivazione. 


E’ evidente che quasi due anni di Dad hanno ulteriormente peggiorato la situazione della scuola italiana e lasciato ferite profonde tra i giovani. Eppure l’Italia li ha chiamati untori, ha derubricato la loro sofferenza a un danno collaterale delle misure per contrastare la pandemia. A distanza di due anni i danni psicologici e le lacune educative legate alle scelte di lockdown stanno emergendo. Ma i problemi della scuola italiana iniziano molto prima. 


I test Pisa (Programme for International Student Assessment), che valutano le competenze in lettura, matematica e scienze degli studenti di quindici anni nei paesi Ocse, lo evidenziano da anni.  Nei test del 2018, l’ultimo anno disponibile, i risultati dei quindicenni italiani erano inferiori alla media Ocse in lettura e scienze e in linea con la media Ocse in matematica. Se restringiamo lo sguardo ai paesi dell’Europa dei 12, fanno peggio di noi solo Grecia e Lussemburgo in lettura, Grecia in scienze, Grecia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna in matematica. 


I risultati delle prove Invalsi mostrano che già in terza media le competenze dei nostri studenti non sono adeguate. Ma soprattutto evidenziano un enorme divario geografico. Nel 2019, prima della pandemia, un terzo degli studenti nel nord-ovest non raggiungeva il livello di adeguatezza (livello 3) in matematica. Al sud e nelle isole uno studente su due. Questa differenza geografica non è ancora presente nelle prove Invalsi che si svolgono in seconda elementare. Le variazioni tra regioni sono minime: con una media nazionali nella prova di matematica di 200, Campania e Emilia Romagna sono appaiate a 197, Puglia e Liguria a 202. Ma già in quinta elementare, le differenze iniziano ad emergere. In Calabria, Sicilia e Sardegna, il punteggio è significativamente inferiore alla media nazionale. Un divario che continua ad aprirsi con la progressione scolastica. In terza media, anche Campania e Basilicata finiscono significativamente sotto la media nazionale. 


Problemi noti ormai da anni. Ma che non riusciamo a risolvere. Eppure l’analisi non manca, basta leggere i rapporti che accompagnano ogni anno i risultati delle prove Invalsi.  Né mancano le proposte di riforma del sistema scolastico. Sono mancate spesso le risorse necessarie per investire nell’istruzione e per riformare. Ma è venuta meno soprattutto la volontà politica di vincere le resistenze al cambiamento nella scuola italiana. 


Next Generation Eu

Oggi le risorse ci sono. Il Next Generation Eu mette in campo un ammontare di risorse imponente per rilanciare la crescita, gli investimenti e le riforme. Per salvaguardare le future generazioni in Europa. All’Italia tocca la fetta più grande: 191,5 miliardi di euro. Il Pnrr prevede 30 miliardi di euro per la missione 4: Istruzione e Ricerca. Di questi quasi 20 per il potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione dagli asili nido alle università. Bene, perché saranno soprattutto i giovani a dover ripagare i 122 miliardi del Next Generation Eu (sui 191,5 miliardi complessivi) che arrivano sotto forma di prestiti. 


Il Pnrr scatta una fotografia del sistema educativo italiano allo stesso tempo realistica e impietosa. Ma presenta anche una lista di riforme strutturali e di investimenti: creazione di oltre 200 mila posti nei nidi e nelle scuole dell’infanzia , l’estensione del tempo pieno scolastico e delle mense, interventi straordinari personalizzati per le scuole con livelli prestazionali critici, investimenti nell’istruzione tecnica e professionale, riforma degli Istituti tecnici superiori, riforma del sistema di reclutamento dei docenti e la creazione di una Scuola di Alta Formazione per dirigenti scolastici e docenti. 


Ma queste riforme si convertiranno in realtà? Nell’ultima Finanziaria, l’istruzione ha trovato poco spazio. Ora è in rampa di lancio la riforma del reclutamento docenti. Quali sono le cose da fare? Vediamone alcune. 


L’orario scolastico 

E’ necessario garantire il tempo pieno a tutti gli studenti delle primarie (e delle medie). Oggi nelle scuole primarie sono a tempo pieno – 40 ore settimanali, tipicamente dalle 8.30 alle 16.30, otto ore tra studio, socialità, pranzo e intervalli – meno di due classi su cinque. Nelle altre, c’è l’orario normale, da 24 a 27 ore settimanali, tipicamente dalle 8.30 alle 13.30, poi tutti a casa. Alla fine della quarta elementare, gli alunni in tempo pieno hanno già passato più ore in classe – escluse quelle in mensa – di quante ne avranno fatte gli studenti in tempo normale alla fine delle elementari. Le differenze geografiche nell’uso del tempo pieno sono enormi: a Milano quasi il 95 per cento delle classi è a tempo pieno, a Napoli meno del 25 per cento.


Queste ore mancanti aprono divari anche socio-economici importanti. Gli studenti delle classi a tempo normale provenienti da famiglie abbienti avranno modo di occupare produttivamente la loro giornata, tra compiti a casa svolti sotto un’idonea supervisione, sport e altre attività ricreative e stimolanti. Per gli altri, se va bene, c’è l’aiuto dei nonni, dell’associazionismo volontario e di qualche società sportiva. Altrimenti, questi alunni rischieranno di essere socializzati dalla strada. Soprattutto nelle periferie. Quanto costa? Il costo annuo per docenti e personale tecnico-amministrativo necessari per offrire il tempo pieno in tutte le scuole elementari si aggira attorno ai 2,8 miliardi di euro annui – a cui va aggiunto un miliardo una tantum per l’edilizia scolastica. 


Le scuole medie italiane hanno un orario scolastico simile al tempo normale delle elementari, ma più compresso: sei ore di lezione, tipicamente tra le 8 e le 14. Anche per le medie, garantire una formula efficace di tempo pieno consentirebbe di ridurre le disparità che si creano in base al background socio-economico delle famiglie, di seguire più da vicini i nostri giovani in un periodo complesso della loro crescita evolutiva, e di migliorare la loro performance scolastica.


I docenti

Il sistema d’istruzione italiano è bloccato in un circolo vizioso, in un equilibrio negativo da cui è difficile uscire. I docenti si sentono malpagati, maltrattati e malgiudicati. Abbandonati a sé stessi. Hanno visto il loro status sociale precipitare progressivamente. La loro autorevolezza è sminuita al cospetto di genitori e alunni sempre più sfidanti. Uno studio della Varkey Foundation, condotto sulla percezione sociale che si ha degli insegnanti in 35 paesi, colloca l’Italia agli ultimi posti, davanti solo a Israele e Brasile. In queste condizioni, a muovere l’impegno dei docenti sono più le motivazioni intrinseche, la voglia di aiutare gli studenti, l’amore per la materia, che gli incentivi economici o sociali. Lo studio della Varkey Foundation suggerisce una correlazione positiva tra lo status dei docenti e il rendimento degli alunni. Per uscire dal circolo vizioso, bisogna ripartire dalla valorizzazione dei docenti. E chiedere loro di più.


E’ cruciale adeguare gli stipendi dei docenti alla media europea – anche attraverso forme premiali. E introdurre qualche forma di carriera per valorizzare le conoscenze degli insegnanti impegnati nelle scuole, migliorare la selezione dei nuovi docenti, attratti dalla possibilità di carriera anche in università, e arricchire la loro formazione. La riforma proposta dal governo lega gli incentivi salariali alla formazione. Bene, sempre che ciò non si trasformi in un’inutile burocratizzazione della formazione ai soli fini salariali. Peccato non essersi spinti oltre, non aver affrontato il tema della misurazione dell’impatto del lavoro dei docenti sull’apprendimento degli studenti. Da utilizzare con finalità premianti: gratificare economicamente chi già oggi fa bene e aiutare gli altri a migliorarsi. 


Invalsi

Per migliorare la scuola italiana bisogna essere in grado di misurare la performance scolastica, monitorare i progressi di studenti, docenti, scuole. Il sistema Invalsi, per quanto perfettibile, consente una prima misurazione dell’andamento scolastico. Eppure, i test Invalsi sono spesso osteggiati. I risultati sono disponibili solo in maniera aggregata. I genitori non conoscono i risultati degli Invalsi dei propri figli. Né le scuole non sono tenute a mostrare il risultato medio dei propri studenti. I dati Invalsi creano ansia perché c’è la convinzione che saranno usati solo per dividere le scuole tra buone e scadenti. Magari per premiare monetariamente i docenti i cui studenti hanno ottenuto buoni risultati e penalizzare gli altri. Sarebbe un errore. Spesso le scuole con le performance peggiori sono quelle che operano nelle zone socialmente più svantaggiate. Non avrebbe senso comparare il loro risultati con quelli delle scuole dei centri storici delle grandi città del nord. Queste scuole andrebbero aiutate – anche per il valore sociale della loro presenza sul territorio – non punite. I risultati degli Invalsi andrebbero resi noti, perché consentono di conoscere, almeno in parte, la realtà della nostra scuola. Potrebbero essere usati per premiare le scuole che ottengono dei miglioramenti nel corso degli anni. Ma soprattutto per identificare le scuole che hanno bisogno di aiuto. In una sorta di programma ministeriale Scuole da incubo, tra le scuole con le peggiori performance se ne potrebbero sorteggiare alcune a cui offrire aiuti concreti, in termini di risorse pedagogiche, manageriali, didattiche. Ciò consentirebbe anche di valutare l’efficacia degli aiuti offerti, confrontando gli eventuali miglioramenti nella performance delle scuole aiutate rispetto a quelle non sorteggiate. 


Un osservatorio sull’abbandono scolastico

I dati fanno paura anche quando non misurano la performance degli studenti, bensì il loro abbandono. Nel 2017, in Italia la quota di giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato precocemente gli studi è 14 per cento, contro una media dei paesi EU-28 del 10.6 per cento. Il Covid ha peggiorato la situazione. Secondo un’inchiesta realizzata dalla Comunità di Sant’Egidio durante la pandemia, un bambino su quattro è a rischio di dispersione scolastica, soprattutto nelle periferie urbane. Abbiamo il dovere di recuperare questi ragazzi. Ma non basta istituire un numero verde o qualche presidio di quartiere e aspettare che siano loro a presentarsi. Abbiamo il dovere di essere proattivi. E’ necessario un osservatorio sull’abbandono scolastico che raccolga i dati necessari per intervenire. 

Oggi, risorse per i giovani e idee di riforma non sembrano mancare. Ma ci sarà la volontà politica di creare un sistema educativo per i giovani? La scuola ha smesso ormai da anni di essere un ascensore sociale, per diventare uno strumento di mantenimento dello status quo, ammantato di finta meritocrazia. Cambiare l’istruzione per ristabilire una vera uguaglianza di opportunità dovrebbe essere un tema caro alla sinistra, che sembra invece bloccata da logiche corporativiste. Ma forse è poco serio parlare di sinistra e destra, meglio cercare un’alleanza intergenerazionale tra studenti, genitori e docenti, che ridia a quest’ultimi un ruolo sociale ed economico – in cambio di migliore selezione, formazione e incentivi. Con buona pace di chi preferisce opporsi al cambiamento per non perdere posizioni di privilegio.

 

L’autore è professore di Economia nel dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università Bocconi. “Gioventù smarrita. Restituire il futuro a una generazione incolpevole” (Università Bocconi Editore, 2021) il suo ultimo libro.

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