Una puntata di Cartabianca su Rai3 

spazio okkupato

Quanto è comodo fare l'intellettuale scomodo (e vittimista) nei talk-show

Giacomo Papi

Deve essere inebriante sentirsi voci isolate e controcorrente, soprattutto se per questo vieni applaudito, sommerso di like e invitato in tv. Ma invitare tutti quelli che si sentono fuori dal coro non è vero pluralismo

Non c’è niente che mi irriti di più, ormai, dei malpensanti da mainstream che si fingono minoranze perseguitate. Niente mi fa dubitare della superiorità della democrazia più della loro vittimistica libertà di parola. E’ una variante del “chiagni e fotti”, con l’aggravante che nel loro chiagnere non c’è dolore ma soltanto un ditino puntato, un sopracciglio alzato, un sorrisetto sdegnato contro il mondo iniquo e stolto che non li capisce e non capisce, ma in cui prosperano. Oggi, in Italia, nessuno è più comodo dell’intellettuale scomodo, che non rischia mai niente perché, asserragliandosi nella critica, si pone programmaticamente dalla parte di chi giudica e, quindi, è per definizione innocente, in diritto di offendersi se la realtà non lo ascolta. 

Gli stessi che fino a un mese fa, ogni sera nei talk show, denunciavano coraggiosamente la dittatura sanitaria, oggi di fronte ai bombardamenti, ogni sera nei talk show denunciano coraggiosamente il clima maccartista da cui si sentono circondati per il loro rifiuto di schierarsi dalla parte dell’Ucraina aggredita. Deve essere inebriante sentirsi voci isolate e controcorrente, soprattutto se per questo vieni applaudito, sommerso di like e invitato in tv. Ma non si può essere partigiani senza guerra, dissidenti senza gulag ed eretici senza roghi. Per essere coraggiosi è indispensabile rischiare qualcosa, come le migliaia che in questi giorni finiscono nelle prigioni russe per avere parlato di “guerra”. In caso contrario l’unico atteggiamento intellettualmente onesto è accettare di essere un’altra delle voci che, per quanto stridenti, fanno parte del coro.

L’idea che l’intellettuale debba essere la coscienza critica della società è condivisibile soltanto se si accetta che la parola “critica” non significa essere contrari per forza. Immanuel Kant non ha scritto “La critica della ragion pura” per parlare male della ragion pura, ma per descrivere, come dice il dizionario Treccani, “il processo attraverso il quale la ragione umana prende coscienza dei propri limiti”. Il limite più grande, per quanto mi riguarda, è accettare che l’intellettuale non è un giudice, che il suo compito non è emettere sentenze, risalire l’albero delle responsabilità fino a indicare la colpa primigenia, in modo da stabilire chi abbia iniziato, se la Russia di Putin o la Nato, e se abbia fatto più danni il nazionalismo ucraino o la miopia interessata dell’Europa. (Chi è invitato in quanto esperto, ovviamente, ha non solo il diritto, ma anche il dovere di spingersi nell’analisi della complessità delle cause).

Questo orrore, come tutte le guerre, è un groviglio inestricabile di colpe, ma le colpe non bastano. Perché con le colpe pregresse si può giustificare tutto, anche l’ascesa di Hitler nella Germania umiliata dalle altre potenze dopo la Prima guerra mondiale e l’invasione dell’Austria (dove, peraltro, Hitler era nato). Per me c’è un punto oltre cui non si può andare. Davanti a un’aggressione, eccepire, distinguere, paragonare significa giustificare. Significa assomigliare a quelli che, di fronte a una donna picchiata, stuprata o ammazzata, si mettono a dire che in fondo anche lei poteva evitarsi di provocare o innervosire il carnefice.

In democrazia comprendere le ragioni del carnefice non è soltanto permesso. E’ giusto. Nessuno tocchi Caino, appunto. Il problema, infatti, non è quello che si dice, ma il compiacimento con cui lo si dice. Più che difensori di Caino, la mia impressione è vedere ovunque accusatori di Abele o, peggio, promotori di sé. Deve essere successo qualcosa di grave in Italia se oggi per sentirsi Pasolini basta essere invitati da Giletti (anche quando diceva cose sbagliate e ne ha dette – le lucciole ci sono ancora, la Montedison no, e non è vero che il fascismo era meglio del consumismo – Pasolini si metteva in gioco davvero ed era animato dalla passione di capire, non dalla smania di giudicare). O forse, semplicemente, è più comodo e remunerativo ritagliarsi la posizione del giudice e farsi notare votando in modo diverso dagli altri come a “Ballando con le stelle”. 

E così, come se non bastasse l’orrore della guerra, degli ospedali bombardati e dei profughi, come se non bastassero due anni in cui più minchiate si dicevano – “clinicamente morto”, “non ce n’è di coviddi”, “è come un’influenza” – più si veniva invitati in tv, bisogna sorbirsi la quotidiana saccenza di chi lo sapeva già e lo ripeteva da sempre che le sanzioni sono troppo blande, ma che le armi all’Ucraina sono troppo violente e che Putin è un criminale creato dall’Occidente (ce ne fosse mai uno autoctono). Si dirà che è il prezzo della democrazia. Il pluralismo è sacro, al punto che ogni opinione sensata debba essere servita per contrappeso con un’idiozia, per par condicio. La realtà, più banale, è che la contrapposizione in tv è redditizia: alza gli ascolti e costa pochissimo.

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