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Meglio un’alleanza pasticciata che soli. Letta e Meloni lo sanno

Giuliano Ferrara

Dividersi i collegi e tentare l’all-in. Un’idea difficile ma necessaria per il segretario Pd e la leader di FdI

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Claudio Petruccioli, che è un talpone mica male della politica, potrebbe avere ben scavato. Dice da un po’ una cosa difficile a farsi, forse con alto livello di improbabilità, complicata nelle premesse del politicantismo più primitivo, ma non priva di logica, dunque plausibile: Meloni e Pd, accreditati dai sondaggi come primo e secondo partito, dovrebbero presentarsi da soli alle elezioni dell’anno prossimo nei 221 collegi elettorali uninominali (37 per cento del totale degli eletti), e per il resto dei collegi proporzionali (61 per cento) tutto come sempre (ciascuno per sé). I due partiti eliminerebbero così l’aritmetica pasticciona delle candidature di coalizione, che ha da tempo la funzione di mascherare le differenze in nome della ipotetica conquista della maggioranza di governo, e ridurrebbero le alleanze a una convergenza genuinamente politica e di programma intorno a leadership definite dal voto maggioritario, secondo lo spirito della legge elettorale. La premessa maggiore è che allo stato delle cose tra Meloni e i suoi alleati politici c’è una divaricazione strategica importante sulla questione decisiva, la guerra e la solidarietà euro-atlantica. 

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Claudio Petruccioli, che è un talpone mica male della politica, potrebbe avere ben scavato. Dice da un po’ una cosa difficile a farsi, forse con alto livello di improbabilità, complicata nelle premesse del politicantismo più primitivo, ma non priva di logica, dunque plausibile: Meloni e Pd, accreditati dai sondaggi come primo e secondo partito, dovrebbero presentarsi da soli alle elezioni dell’anno prossimo nei 221 collegi elettorali uninominali (37 per cento del totale degli eletti), e per il resto dei collegi proporzionali (61 per cento) tutto come sempre (ciascuno per sé). I due partiti eliminerebbero così l’aritmetica pasticciona delle candidature di coalizione, che ha da tempo la funzione di mascherare le differenze in nome della ipotetica conquista della maggioranza di governo, e ridurrebbero le alleanze a una convergenza genuinamente politica e di programma intorno a leadership definite dal voto maggioritario, secondo lo spirito della legge elettorale. La premessa maggiore è che allo stato delle cose tra Meloni e i suoi alleati politici c’è una divaricazione strategica importante sulla questione decisiva, la guerra e la solidarietà euro-atlantica. 

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Lo stesso vale per la relazione tra Letta e i grillini. Una divaricazione esaltata dai conflitti interni agli alleati: un Fedriga leghista o una Gelmini e una Carfagna forziste sono occidentalisti in polemica con la leadership, e nel campo cosiddetto progressista è lo stesso, basti pensare alla disputa più che strisciante tra Conte e Di Maio e agli imbarazzi lettiani di fronte alle uscite paraputiniane dei boss grillini. Ma non basta. Dalla logica di coalizione Meloni ha ricavato solo schiaffi e tradimenti: lasciata da parte nel 2018, quando si fece il governo del contratto tra Salvini e grillini, poi di nuovo emarginata dall’unità nazionale intorno a Draghi. Di più: la fortuna politica di Meloni nei sondaggi si costruisce proprio su questo isolamento che le è stato ripetutamente inflitto o che ha scelto a scorno delle chiacchiere sulla coalizione, e se oggi può pensare di essere il primo partito a destra, e largamente, è per via della sua solitudine apparente, dell’opposizione e di un fenomeno di consenso, presente anche a sinistra con il caso Calenda, verso chi si mostra indisponibile a legami pasticciati (Calenda dice no ad alleanze con i grillini, ma di fronte alla decisione di presentarsi da solo di Letta ovviamente le cose cambierebbero).

Insomma, sui due fronti sarebbe, con questa soluzione, illimpidita la battaglia per la leadership, forniti di credibilità (in particolare per Meloni) la posizione euro-atlantica e lo statuto di partito conservatore, e a sinistra finirebbe la tiritera comprensibile dell’innaturale coalizione con Conte. In più, senza inutili dichiarazioni di coalizione e indicazione anticipata di nomi presunti dei leader, e defatiganti trattative con una pletora di nanetti scalpitanti per ottenere il risultato aritmetico utile, con la corsa solitaria dei due maggiori partiti nei collegi uninominali sarebbe rispettato il vero spirito della legge elettorale, e si avrebbe una bipolarizzazione maggioritaria virtuosa.

Bisogna però aggiungere che tutto questo, guerra, strategia, limpidezza della leadership, credibilità delle alleanze, che sarebbero consegnate a scelte parlamentari di dopo le elezioni, come è già successo ma in modo sghembo e trasformistico, potrebbe essere contraddetto dalla “convenienza”, magari spicciola, che è regina nelle scelte politiche, in particolare in una stagione in cui il coraggio delle classi dirigenti latita. Infatti lo “schema Petruccioli”, il ben scavato vecchia talpa, è contraddetto dalla circostanza più ovvia: se Meloni va sola negli uninominali, a specchio con Letta, sono troppi i collegi del nord in cui alleanze leghiste e forziste con i nanetti metterebbero teoricamente o praticamente in pericolo l’elezione dei suoi. Meglio un pasticcio che una scelta limpida e politicamente motivata. Per questo una idea plausibile, e forse anche necessaria, ha tutta l’aura, quanto alla sua realizzazione, dell’improbabilità.

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