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Non solo maledizioni e superstizioni

Tempeste e intrighi: i giorni infelici del Quirinale

Come dimenticare  i leader del M5s in piazza, nel 2018, a chiedere la  messa in stato d’accusa di Mattarella. Oggi vorrebbero la sua rielezione

Francesco Cundari

Dal “sedia-gate” di Gronchi alle ombre di colpo di stato ai tempi di Segni. Gli attacchi selvaggi a Giovanni Leone e Giorgio Napolitano preso di mira dai pm della Trattativa

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Forse aveva ragione De Nicola. E chissà se fosse davvero superstizione, o magari delicatezza istituzionale, intelligenza storica e politica, senso dell'opportunità o senso pratico. Forse un miscuglio di tutte queste cose. Fatto sta che il primo capo provvisorio dello Stato (saltando, come è ragionevole fare, il breve momento in cui l’incarico toccò al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, all’indomani del referendum istituzionale e della dura battaglia legale sul suo esito), e cioè l’insigne giurista meridionale Enrico De Nicola, già presidente della Camera, deputato e senatore del Regno, al Quirinale non ci volle andare mai (il primo a farlo sarà il suo successore, Luigi Einaudi, peraltro assai di malavoglia).

 

La superstizione diceva infatti che sul palazzo gravasse la maledizione dell’ultimo Papa re, Pio IX, che dopo il 1870 avrebbe lanciato l’anatema contro gli usurpatori, i loro discendenti e i loro successori. A cominciare ovviamente dai Savoia. Può anche darsi, tuttavia, che De Nicola non ci volesse mettere piede non tanto per timore del papa, quanto per riguardo al re, essendo il primo capo dello Stato eletto in regime repubblicano, ufficialmente presidente della Repubblica dal 1° gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione, un monarchico. 

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Enrico De Nicola, già presidente della Camera, deputato e senatore del Regno, al Quirinale non ci volle andare mai. Forse per colpa di Pio IX

 

Quale che fosse la reale motivazione, per tutta la durata del suo mandato il presidente risiedette a Palazzo Giustiniani, dove si pagava le bollette di tasca sua, rifiutando l’appannaggio presidenziale e ostinandosi a sfoggiare il famoso cappotto rivoltato, e dove aveva fatto portare il suo letto, l’unico su cui era abituato a riposare (poco più di una branda: un letto d’ottone a una piazza). Dubbi e timori di De Nicola andavano però ben oltre la semplice questione, per dir così, del luogo di lavoro. La sua renitenza all’incarico – a tutti gli incarichi, a dire il vero, e tanto più dinanzi a uno così impegnativo – è rimasta immortalata, come in una foto, dall’appello rivoltogli dal liberale Manlio Lupinacci, stanco di tutti quei tentennamenti, sul Giornale d’Italia: “Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare”. 

 

L’uomo, del resto, ha il suo carattere. Si ritira nella casa di Torre del Greco, non risponde al telefono, si fa negare. Racconterà Giovanni Leone: “Veniva al telefono e credendo di ingannarmi camuffava la voce nella cornetta: mi dispiace, l’onorevole non c’è”. Anche una volta eletto, non fa nulla per nascondere la propria insofferenza. Minaccia ripetutamente di dare le dimissioni, e il 25 giugno 1947 lo fa davvero. Non potendole rifiutare, l’Assemblea costituente lo rielegge il giorno dopo.

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Quali che fossero le ragioni per cui non voleva risiedere al Quirinale, superstizioso comunque doveva esserlo parecchio, almeno se è vero che rifiutava persino di firmare atti importanti di venerdì, che aveva cassetti pieni di cornetti portafortuna e ferri di cavallo, e che teneva di proposito un gobbo come stretto collaboratore, per dir così, sempre a portata di mano.  D’altra parte, De Nicola non è certo l’unico scaramantico, tra gli augusti predecessori di Sergio Mattarella.

 

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De Nicola Rifiutava di firmare atti importanti di venerdì, aveva cassetti pieni di cornetti portafortuna e ferri di cavallo, aveva un collaboratore gobbo

 

Di Giovanni Gronchi si diceva che, quando proprio non poteva evitare che un giornalista da lui considerato uno iettatore fosse presente in un volo istituzionale, facesse togliere tutti gli specchi dall’aereo. Quanto a Leone, immortalato dai fotografi mentre fa il gesto delle corna, quando da presidente della Camera doveva richiamare all’ordine un certo deputato, pur di non nominarlo richiamava sistematicamente l’incolpevole Vito Scalia, e alle sue proteste replicava: “Onorevole, fra meridionali c’intendiamo” (quanto alle corna, anni dopo, preciserà: “Non era uno scongiuro, erano male parole. Mi gridarono ‘fetente’ e io gli ho risposto ‘fetenti ’a mmuorte vostra’”).

 

Ma che si tratti di superstizione o invece di calcolo, della maledizione di Pio IX, di quella di Vittorio Emanuele III o di Umberto II, che vi siano dietro ragioni storiche o scaramantiche, politiche o istituzionali, bisogna ammettere che gli inquilini del Quirinale raramente se ne sono rimasti tranquilli. Quindi, a pensarci bene, forse il vecchio De Nicola aveva visto più lungo di tanti altri.
Certo non fu un periodo felice per Gronchi. Un altro che non volle risiedere al Quirinale, ma forse trovò comunque il modo di trascorrerci del tempo in maniera non troppo spiacevole, a giudicare dalle voci, e anche qualcosa di più, a proposito di una porticina che si apriva su una via laterale, non presidiata dai corazzieri, passata alle cronache come “l’ingresso Gronchi” (per non parlare della sala in cui teneva i suoi bellissimi trenini elettrici). 

 

Gli inquilini del Quirinale raramente se ne sono rimasti tranquilli. Quindi, a pensarci bene, forse De Nicola aveva visto più lungo di  altri
 

 

Va anche detto, però, che bastava poco per guastargli l’umore. Al riguardo c’è un episodio molto famoso, di cui forse si è sottovalutato il valore simbolico, non solo per Gronchi, ma in qualche misura anche per tutti i suoi successori, e per il nostro infinito dibattito sulle riforme istituzionali, i modelli stranieri cui ispirarci, il semipresidenzialismo alla francese e il presidenzialismo all’americana. Quasi una profezia. La profezia della sedia. L’episodio è questo. E’ il 23 giugno 1959. Alla Scala di Milano, sul palco reale, c’è Charles de Gaulle, in visita ufficiale in Italia, l’uomo che è riuscito a imporre alla politica francese una riforma istituzionale di carattere presidenziale (o semipresidenziale, per i più pignoli), a far ratificare la nuova Costituzione da un referendum e a far eleggere trionfalmente se stesso presidente, tenendo così a battesimo la cosiddetta Quinta Repubblica. Accanto a lui c’è Gronchi, il primo di una lunghissima serie di leader politici italiani che sogneranno di imitarlo (lo stesso stupido vezzo di definire “Seconda Repubblica” il sistema politico scassato dai referendum maggioritari, più di trent’anni dopo, viene da lì). Peccato che in quel momento solenne, dopo avere ascoltato impettiti prima la Marsigliese e poi l’inno di Mameli, in diretta tv, al momento di accomodarsi, pare per la distrazione di un collaboratore che avrebbe dovuto avvicinargli la sedia, Gronchi finisca a terra.

 

L’origine della profezia della sedia. E’ il 23 giugno 1959. Alla Scala di Milano, sul palco reale, c’è il presidente francese Charles de Gaulle

 

L’indomani, i principali giornali non si azzardano a scrivere una riga. Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi, in onda con “Un due tre” sulla Rai, si limitano a una gag in cui non fanno alcun nome né alcun riferimento esplicito. Semplicemente, Tognazzi finge di cadere, e Vianello gli fa: “Ma chi ti credi di essere?”. Dal giorno dopo il responsabile del varietà è destinato ad altro incarico, e Tognazzi, ideatore della battuta, sospeso a tempo indeterminato dal video. E tutto questo senza che il presidente Gronchi fosse stato nemmeno nominato (ve l’avevo detto che era permaloso). Per chi fosse interessato a una versione decisamente controcorrente e certo di parte, ma a suo modo psicologicamente illuminante, tanto sul narratore quanto sul protagonista, l’allora direttore generale della Rai, Ettore Bernabei, nel suo libro-intervista “L’uomo di fiducia”, la mette così: “Qualcuno avrà detto a Tognazzi: ‘Hai visto ’sta storia di Gronchi, fai una scenetta in cui lo sfotti’, e lui, senza pensare al fine nascosto di quel suggerimento, realizzò anche di malavoglia la scenetta. D’altra parte il suggerimento deve essergli arrivato da qualcuno che sapeva benissimo quanto Gronchi fosse suscettibile e quali conseguenze quell’episodio avrebbe potuto provocare”.

 

Insomma, il sedia-gate potrà anche indurre al sorriso, ma il tentativo di importare in Italia una qualche versione del gollismo è invece un fenomeno di lunga durata, e finirà, più o meno sempre, come quella sera sul palco della Scala. Gronchi è infatti il primo a tentare di affermare anche in Italia un ruolo del capo dello stato che vada ben oltre la funzione “notarile” cui si erano scrupolosamente attenuti i primi due presidenti, De Nicola ed Einaudi. Un tentativo di riforma informale – oggi si direbbe forse un “semipresidenzialismo di fatto” – che si traduce in continue prove di forza tra Gronchi da un lato, presidenti del Consiglio e vertici del suo stesso partito, la Democrazia cristiana, dall’altro. Il fondatore del Partito popolare, Luigi Sturzo, critica apertamente “la partecipazione attiva di un potere, non responsabile verso il Parlamento, all’esercizio del governo che risponde dei propri atti unicamente al Parlamento”. Nel 1957 il presidente del Consiglio, Antonio Segni, e il suo ministro degli Esteri, Gaetano Martino, arrivano a bloccare l’inoltro di una lettera di Gronchi al presidente degli Stati Uniti, Dwight Eisenhower, perché ritenuta in contrasto con gli orientamenti del governo (il caso, tra minacce incrociate di ricorsi alla Corte costituzionale, contribuirà alla caduta del primo governo Segni).

 

Gronchi è  il primo a tentare di affermare anche in Italia un ruolo del capo dello stato che vada ben oltre la funzione “notarile” 

 

I veri guai, per Gronchi, arrivano però nel 1960. Nel pieno della crisi del centrismo, la lotta politica dentro e attorno alla Dc si fa sempre più dura, anche a colpi di dossier, ricatti, veline, dividendo gli stessi apparati e servizi di sicurezza, in un gioco destinato a farsi sempre più incontrollabile. In seguito alle dimissioni del secondo governo Segni, il presidente incarica Ferdinando Tambroni, suo fedele alleato nella Dc, che da ministro degli Interni ha contribuito non poco ad alimentare quel gioco (nei suoi diari Mariano Rumor lo ricorda come uno che “concepiva la politica come la sede degli intrighi e delle furberie”, uno che al Viminale “si era di proposito creato da se stesso la fama di un piccolo Fouché nostrano”). Dovrebbe essere il governo della svolta a sinistra, ma all’ultimo il Psi si sfila, e alla Camera si trasforma nel primo governo sostenuto dai voti, decisivi, del Movimento sociale. 

 

In un clima ai limiti della psicosi, tra voci di colpi di stato e persino di un piano per rapire il capo dello stato in Sardegna, a compromettere definitivamente la situazione arriva l’autorizzazione del governo allo svolgimento del congresso del Movimento sociale al teatro Margherita di Genova, a pochi passi dal sacrario della Resistenza. Sono passati appena quindici anni dalla fine della guerra, e la notizia scatena la mobilitazione delle sinistre. Dal comizio di Sandro Pertini in piazza, il 28 giugno, allo sciopero generale di due giorni dopo, con le forze di polizia sopraffatte dai manifestanti, l’Italia appare sull’orlo di una nuova guerra civile. Anche dopo che il primo luglio il Msi annuncia l’annullamento del congresso, le manifestazioni si susseguono, la polizia spara sui dimostranti uccidendone cinque solo a Reggio Emilia (come ricorda la famosa canzone), ma anche a Licata, Palermo, Catania.   

 

Dal comizio di Sandro Pertini  allo sciopero generale di due giorni dopo, l’Italia, nel 1960,  appare sull’orlo di una nuova guerra civile

 

 

Con le dimissioni di Tambroni, il 19 luglio 1960, di fatto, è come se finisse anche la presidenza Gronchi, che si concluderà formalmente nel 1962. Paradossalmente, l’uomo che forse più di ogni altro si era esposto sulla linea del centrosinistra, dovendo fronteggiare durissime pressioni sia dal Vaticano sia dagli Stati Uniti (l’ambasciatrice Clare Boothe Luce rifiutò persino di presenziare al ricevimento inaugurale del settennato), dovrà vedere l’affermazione della sua linea dalle retrovie, mentre il suo nome è ormai indissolubilmente legato al drammatico fallimento del governo Tambroni, alle manovre oscure e ai timori di colpo di stato. E per il resto sostanzialmente dimenticato, fino alla morte, nel 1978.

 

Non andrà meglio, tuttavia, al suo successore. Cioè a quello stesso Antonio Segni con cui Gronchi si era scontrato all’inizio del settennato. Tra i fondatori della corrente dei dorotei, nata per frenare le ambizioni di un altro leader sospettato di tentazioni presidenzialiste, Amintore Fanfani, anche lui convinto assertore dell’apertura a sinistra, Segni ne è invece uno dei più fermi oppositori. Proprio per questo Aldo Moro lo vuole al Quirinale, convinto com’è, anche alla luce dei fatti del luglio 1960, che qualsiasi politica di apertura a sinistra, per non finire male, abbia bisogno di una figura simile in posizione di garante. Non finirà bene neanche questa volta. Anche perché Segni è il primo a non sentirsi affatto garantito. E perché a spingerlo in direzione opposta c’è un ampio e autorevolissimo schieramento di forze, dal governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, a buona parte dei vertici della magistratura, della burocrazia, delle forze dell’ordine.

 

E così, quando nel 1963 Moro vara il primo governo di “centrosinistra organico”, cioè con dentro ministri del Psi, la situazione sembra precipitare di nuovo. Nonostante lo stesso Segni sia riuscito a frenare gran parte della spinta riformatrice dell’esecutivo, imponendo suoi uomini nei posti chiave e mettendo il veto, di fatto, a diverse iniziative (dalla legge urbanistica all’istituzione delle Regioni). Il 27 maggio 1964 il Messaggero pubblica una lettera del ministro del Tesoro Emilio Colombo, corrente dorotea, vicinissimo a Segni, al presidente del Consiglio Moro, in cui demolisce il programma del centrosinistra evocando “un pericolo mortale non solo per l’economia ma anche per la democrazia”. Si torna a parlare, anche sulla stampa internazionale, di un’atmosfera da colpo di stato. 
Il passaggio dal primo al secondo governo Moro, tra giugno e luglio del 1964, vede il Quirinale al centro delle manovre per ridurre i socialisti a più miti consigli, nell’interpretazione più morbida. O addirittura per la realizzazione di un golpe, con il “piano solo” del generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, già molto attivo ai tempi di Gronchi, che prevedeva, in caso di disordini simili a quelli del luglio 1960, o peggio, l’arresto di decine di esponenti dell’opposizione, l’occupazione di sedi di partito e della Rai. Il leader socialista Pietro Nenni ne parlerà come di un inquietante “tintinnar di sciabole”. Il giudizio degli storici non è unanime: per qualcuno fu uno spauracchio agitato per ottenere un risultato politico, per altri molto di più. Ad ogni modo la vicenda si concluderà con un secondo governo Moro, di fatto piegato a un drastico ridimensionamento del suo programma. 

 

Fatto sta che il 7 agosto, il giorno dopo la fiducia, il presidente del Consiglio, accompagnato dal leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, sale al Quirinale, ufficialmente, per dare conto del dibattito parlamentare. Cosa si siano detti davvero è difficile stabilirlo con certezza (le testimonianze sono discordi). Ma nel bel mezzo del colloquio, in cui si dice che le voci si siano alzate moltissimo, in particolare tra Saragat e Segni, il presidente è colpito da un ictus, da cui non si riprenderà più. Il 6 dicembre, assistito dal medico, firmerà con la mano sinistra le dimissioni. Gli succederà Saragat. Rispetto alle ombre di guerra civile e colpi di stato dei tempi di Gronchi e Segni, si sarebbe tentati di dire che per gli altri, tutto sommato, fare il presidente della Repubblica sarà una passeggiata. E certo, tutto è relativo. Considerando che a Saragat toccheranno piazza Fontana, le stragi, il terrorismo. A Leone il rapimento e l’uccisione di Moro, nonché una campagna di stampa sullo scandalo Lockheed che lo costringerà a dimettersi prima del tempo per evitare la messa in stato d’accusa, e che lo stesso dovrà fare Francesco Cossiga, dopo anni di scontro frontale con gli stessi partiti che lo avevano eletto (trionfalmente e alla prima votazione, convinti che sarebbe stato il più “notarile” dei presidenti, cosa che in effetti fu, all’inizio). E questo se ci limitiamo solo alla Prima Repubblica, che poi sarebbe l’epoca in cui, in teoria, i poteri della “fisarmonica” presidenziale sarebbero stati più contenuti, in cui il ruolo del capo dello stato sarebbe stato meno rilevante. E certo dopo il 1992 non si può dire che gli inquilini del Quirinale abbiano avuto molto tempo per riposarsi.

 

Ma dopo il 1992 non si può dire che gli inquilini del Quirinale abbiano avuto molto tempo per riposarsi. Da Scalfaro a Napolitano 
 

 

Oscar Luigi Scalfaro, per esempio, eletto proprio all’inizio del terremoto che avrebbe sconvolto la politica italiana, all’indomani della strage di Capaci e a pochi mesi dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite, ha avuto un ruolo decisivo, tra l’altro, nella crisi aperta dalla caduta del primo governo guidato da Silvio Berlusconi, in seguito al cosiddetto ribaltone. Per il suo rifiuto di sciogliere le Camere e riportare gli italiani al voto è stato accusato a lungo, pure lui, di avere compiuto un colpo di stato (da parte del centrodestra, ovviamente). 

 

Ancora più significativo, indiscutibilmente, è stato il ruolo di Giorgio Napolitano nella crisi del 2011, con la scelta di dare l’incarico a Mario Monti. Nonché primo presidente in carica costretto a deporre in un processo, direttamente dal Quirinale, non molto tempo dopo la dura battaglia legale che lo oppone con successo ai giudici di Palermo, che avrebbero voluto utilizzare persino le sue intercettazioni telefoniche. E’ l’incredibile vicenda dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, che coinvolge anche il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, stroncato da un infarto il 26 luglio 2012, dopo essere stato oggetto di una violenta campagna di stampa, come Napolitano non mancherà di ricordare, dando lui stesso notizia della morte.

 

E come dimenticare il momento in cui Mattarella, dopo avere già dato più di una delusione ai vertici del Pd, negando elezioni anticipate all’indomani del referendum istituzionale del 2016, che Matteo Renzi avrebbe fortemente voluto, si ritrovò i leader del Movimento 5 stelle in piazza, nel 2018, a chiedere la sua messa in stato d’accusa, per non aver voluto accettare la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia nel primo governo Conte? Impossibile dimenticarlo, anche perché, semmai ve ne foste dimenticati, a ricordarvelo provvede la sublime ironia della storia, oggi che i gruppi parlamentari del Movimento 5 stelle sono i primi a chiedere ufficialmente la rielezione di Mattarella, a qualunque costo e a dispetto delle sue stesse obiezioni (in questo, va detto, manifestando una paradossale forma di coerenza, se non altro nel metodo: all’inizio della legislatura lo volevano sloggiare dal Quirinale con la forza, ora ce lo vogliono inchiodare, ma sempre con la forza).

 

Eppure, forse anche a causa di una impropria comparazione con il ruolo che il presidente ha in altri paesi, come gli Stati Uniti, o forse anche per l’influenza di quell’interpretazione “notarile” della carica che tuttavia, come si è visto, furono in pochi ad adottare davvero, in Italia c’è sempre stata l’idea che il ruolo del presidente della Repubblica sia quasi ornamentale. Del resto, siamo o non siamo una Repubblica parlamentare? Il Quirinale, da questo punto di vista, sarebbe dunque una sorta di prepensionamento, un modo certo molto gentile e lusinghiero, ma anche assai noioso, di accompagnare i leader sul viale del tramonto. Un luogo di tutto riposo, insomma.
 

Il Colle come una sorta di prepensionamento, di luogo di riposo. Interpretazione che stride con le reali vicende dei presidenti del passato

 

Questa interpretazione stride però non solo con le effettive vicende che hanno caratterizzato il ruolo del presidente nella storia della Repubblica, ma anche con il buon senso, a giudicare dagli scontri furibondi, dalle manovre, dalle campagne di stampa che ogni volta, puntualmente, si svolgono alla vigilia di ogni nuova elezione. Se si trattasse soltanto di una prestigiosa stazione termale, tanto attivismo, tante lotte, tante trappole e tradimenti non avrebbero semplicemente alcun senso. Il gioco non varrebbe la candela. E invece, evidentemente, la vale.

 

E’ comunque degno di nota che tra i pochissimi a dare del ruolo di presidente l’interpretazione più lontana da ogni sospetto di autoritarismo e più rispettosa del ruolo del Parlamento ci fossero proprio i primi due presidenti, che al referendum avevano votato entrambi per la monarchia. Ed è ancor più degno di nota come il sistema, nel corso degli anni, abbia sviluppato una sua liturgia, che appare pienamente coerente con le caratteristiche di un potere riconosciuto come superiore a ogni altro e al quale, giusto per questo motivo, si chiede preventivamente una sorta di atto di umiltà e di omaggio agli altri poteri. Proprio perché è di fatto agli altri sovraordinato, guai a dare anche solo l’impressione di considerarlo effettivamente tale, e di volerlo usare di conseguenza. Forse aveva ragione De Nicola. Il presidente della Repubblica deve sempre farsi pregare, e se necessario non farsi trovare.

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