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Perché il voto sull’Upb non è un bel segnale per il Quirinale

Luciano Capone

Il Parlamento ci ha messo due anni per trovare l'accordo sui dieci candidati all'Ufficio parlamentare di bilancio e ha escluso il profilo più titolato (Bordignon). Se il metodo è questo, non promette bene per l'elezione del capo dello stato

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Per capire quanto sia complicata la partita del Quirinale bisogna guardare a quella, molto più marginale, dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb). L’organo di controllo sulla finanza pubblica doveva essere rinnovato un paio di anni fa: erano rimasti solo gli “scaduti” Giuseppe Pisauro e Alberto Zanardi, dopo che Chiara Goretti è stata chiamata a Palazzo Chigi da Mario Draghi per occuparsi del Pnrr. Per 20 mesi il Parlamento non è stato in grado di trovare un accordo – serve una maggioranza di due terzi – sui 10 nomi da proporre ai presidenti di Camera e Senato a cui spetta la scelta della terna finale. Almeno fino a ieri.

 

Dopo una lunga attesa, che ha prodotto anche delle disfunzioni istituzionali, dato che tutta la sessione di bilancio, dalla Nadef all’approvazione della manovra, è stata valutata da un Upb in prorogatio e quindi non pienamente legittimato, le commissioni Bilancio di Camera e Senato hanno finalmente votato con il quorum necessario i nomi dei dieci economisti: Giampaolo Arachi, Lilia Cavallari, Valeria De Bonis, Stefano Fantacone, Silvia Fedeli, Maurizio Franzini, Lucio Landi, Maria Rosaria Marino, Salvatore Nisticò e Nicola Sartor.

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Ma la votazione, fino all’ultimo minuto, non è stata semplice. Perché da tempo, anche durante l’anno di governo Draghi sorretto da una maggioranza ampissima, i partiti si sono scontrati a colpi di veti incrociati sui nomi da scegliere. Eppure la selezione non dovrebbe essere molto complicata, dato che al Parlamento spetta il compito di indicare, tra le candidature pervenute, le personalità di “riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza in materia di economia e di finanza pubblica a livello nazionale e internazionale”. Si trattava quindi di fare una selezione sulla base dei curriculum, seguendo due criteri: competenza, esperienza e indipendenza. Pare semplice, ma la questione si complica se i partiti seguono logiche spartitorie. O meglio, quando vogliono impedire che passi un “nemico”.

 

E così, per uscire dall’impasse, alla vigilia dell’ennesimo voto si era deciso di procedere con una via di mezzo. Ogni partito fa uno-due nomi (in base all’ampiezza della forza parlamentare) e tutti insieme votano la decina finale. Quando i responsabili economici si riuniscono si rendono conto che, per qualche sovrapposizione, i nomi sono nove: ne manca uno. In genere il problema è se c’è un nome in più, e quindi toglierlo, più che aggiungerne un altro. Ma non in questo caso. Perché nella discussione, dopo che la “spartizione” è avvenuta, a chi ha un po' di dimestichezza con il mondo dell’accademia e delle istituzioni europee viene qualche scrupolo: sarebbe inopportuno escludere il più titolato. Insomma, magari alla fine comunque i presidenti Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati non lo sceglieranno per i tre posti in palio, ma il Parlamento non ci fa una bella figura a tenere fuori il curriculum più prestigioso. Dato che in fondo alla lista c’è una casella vuota... Ma c’è chi capisce subito dove si vuole andare a parare. “Se tirate fuori il nome di Bordignon la riunione finisce qui”, dice Laura Castelli, viceministro dell’Economia e plenipotenziario del M5s.

 

Massimo Bordignon è un professore di Scienza delle finanze e direttore dell’Istituto di economia e finanza dell’Università Cattolica, ma soprattutto fa parte dell’European fiscal board (Efb), il comitato consultivo per le finanze pubbliche in Europa: insomma, l’Upb dell’Ue. L’identikit perfetto per guidare l’Upb, che tra l’altro è nato proprio in attuazione delle normative Ue. Ma anziché un merito, essere membro dell’Efb in questo mondo capovolto diventa una colpa. Così il più adatto diventa quello da bandire. A supportare la Castelli, in una riedizione dell’asse gialloverde, c’è il leghista Alberto Bagnai che definisce Bordignon “un sacerdote dell’austerità, sconfitto dalla storia”. E non importa che abbia ottime pubblicazioni scientifiche, perché per il responsabile economico della Lega “non conta dove si pubblica”. Da sinistra Stefano Fassina sostiene l’idea che in fondo si tratta di un voto politico, e quindi il veto ci sta.

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I problemi però sono due: il primo è che il voto è sì politico ma per un organismo indipendente, quindi andrebbero valutate le competenze e non le presunte idee politiche; il secondo è che Bordignon non è affatto un “falco”, anzi da tempo nell’European fiscal board ha lavorato a una revisione delle regole europee, con un’impostazione analoga a quella alla base della proposta italo-francese di revisione del Patto di Stabilità presentata da Draghi e Macron. Ma per Lega e M5s Bordignon incarna l’austerity e quindi il niet è assoluto: non deve arrivare all’Upb e per esserne sicuri non deve entrare neppure nella lista dei candidati. Alla fine Bordignon ha ricevuto comunque qualche voto, sette, da Iv e una parte del Pd, ma è rimasto fuori.

 

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Ciò che colpisce in questa vicenda è l’incapacità di coordinamento per trovare una maggioranza ampia (ci sono voluti 20 mesi) e la negazione di un metodo utile a scegliere le personalità più adatte al ruolo. Non un buon prologo per l’elezione del Presidente della Repubblica.

 

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