Tra Lauro, San Gennaro e Maradona

È arrivato l'ingegner Manfredi: Napoli dice addio ai suoi re

Francesco Palmieri

Da Bassolino a De Magistris, spesso Napoli è stata governata da sovrani popolari e populisti. Ma le buche e la monnezza sono ancora lì. Che cosa può cambiare con il nuovo sindaco Gaetano Manfredi? Capitano del popolo più che sovrano, Masaniello più che Borbone. Il declino di De Magistris, liquidato anche nel physique du rôle

“Io stanotte non ho potuto dormire. Io stanotte sognai Gesù Cristo e la Santissima Vergine del Carmine, che mi dissero: ‘Troppo tempo sei stato buffone di piazza, ruffiano, magnaccia ed acrobata. Troppo tempo hai fatto lo strùmmolo’”.
L. Compagnone, “Ballata e morte di un Capitano del Popolo”

 


La fine delle mezze stagioni e la millenaria abitudine al prodigio non hanno impedito che i napoletani si stropicciassero gli occhi increduli, in un primo mattino di quest’ottobre che ha usurpato il freddo invernale, trovandosi al cospetto di un Babbo Natale gigantesco piantato in mezzo a piazza Vittoria. Gli occhi li hanno invece strabuzzati alla Soprintendenza, mentre fra polemiche, selfie e sfottò la Camera di Commercio rimuoveva l’installazione ammettendo che il Santa Claus non era autorizzato, ma si trattava di una prova delle tante, fiabesche decorazioni con cui si rallegrerà il Natale. Il primo dopo due infelicitati dalla pandemia. Il primo dopo due sindacature di Luigi de Magistris spalmate su una sovranità decennale, che albeggiò col populismo della bandana arancione e proseguì con la “liberazione” del Lungomare, con la microeconomia dei baretti e la macroeconomia del debito municipale, per terminare soffocato nella Galleria della Vittoria, chiusa al traffico causa lavori da tredici mesi senza una luce in fondo al tunnel. Prima o poi riaprirà giusto lì, alle spalle del Babbo Natale rimosso, dove fiammeggiano gli anatemi degli automobilisti che si spostano da est a ovest lungo percorsi alternativi e intasati.


E’ terminato, quel decennio arancione, con la vittoria al primo turno dell’ex rettore e già ministro Gaetano Manfredi, con l’abbandono di de Magistris e la sua sconfitta nelle urne del voto regionale calabrese, ma non ne sono terminati gli effetti. Più inquietante fra tutti, repentina come la comparsa del Babbo Natale, è stata la ricomparsa dei cumuli di spazzatura torreggianti dopo uno sciopero generale della municipalizzata Asìa, che ha rievocato l’incubo endemico della ‘monnezza’.
Richiamato dalle macchinose trattative per la formazione della giunta comunale all’asprezza della realtà incalzante, Manfredi ha sospeso l’aplomb accademico e ha fatto la faccia feroce. Ha bollato come “intollerabile” lo sciopero e la situazione dell’Asìa come “un disastro annunciato”, frutto di dieci anni di “populismo in salsa napoletana” e di “occasioni perdute”. Il neo sindaco sostenuto dal Pd e dal governatore campano Vincenzo De Luca, dai Cinque stelle in rotta che gli sono saliti sulle spalle e da tredici liste di supporto, non è un descamisado accattivante, ma un accademico in completino scuro. Con la proprietà caratteristica dei “secchioni” di successo: una sommessa ma cocciuta resilienza (sostantivo sdoganabile se riferito a un ingegnere laureato con 110 e lode). Nominati gli undici assessori della giunta comunale, alla fine ha tenuto per sé un pacchetto di deleghe quantomeno impegnativo: dal Pnrr al personale, dalla digitalizzazione alla cultura, dal patrimonio allo Stadio (a Napoli il Maradona, già San Paolo, si scrive con la “esse” maiuscola).

Napoli, con l'elezione di Manfredi dice addio alla stagione popolare-populista

Memore delle great expectations di “Rinascimento”, conseguite negli anni Novanta e poi svanite tra le dita dell’illustre predecessore Antonio Bassolino, suo avversario elettorale nei tempi supplementari della propria carriera politica, a quell’epopea guarda Manfredi più che alla vittoria facile sui patatrac del fu messia de Magistris. Guarda sapendo che dovrà (far) dimenticare la saga del funzionario comunista afragolese che assurse a sindaco per presunta grazia di san Gennaro e plebiscitaria volontà del popolo, ma ammainò il suo mito da presidente di una regione coperta “di immondizia, di scandali e di infinita delusione”, per dirla con Antonio Ghirelli quando notificò l’ultima pagina del Novecento partenopeo.


Quello di Bassolino, che redivivo sederà all’opposizione nella consiliatura attuale, è il modello mistico cui l’ingegner Manfredi contrapporrà il proprio, inaugurato lunedì 18 ottobre con l’ufficiale proclamazione a sindaco nella Sala Arengario a Palazzo di Giustizia: la formula laica di un tecnico diligente, spoglio per indole e forme politiche dei carismi che unsero i “sovrani repubblicani” napoletani, i quali incorporarono, avrebbe osservato lo scrittore Giuseppe Marotta, “un’idea in una persona”.


“Sovrani repubblicani” li definì lo storico Paolo Macry nel saggio “Napoli. Nostalgia di domani”, rievocando un elenco che anche i più giovani avranno orecchiato – in toni consacratori o esecratori – dai racconti di genitori e nonni: “Nella vulgata corrente, Achille Lauro diventò ‘l’ultimo dei Borbone’. Antonio Gava, di cui si diceva che i devoti baciassero l’anello della mano destra, fu ‘il viceré’. E furono ‘viceré’, nel tardo Novecento, tre personalità influenti come Paolo Cirino Pomicino, Giulio Di Donato e Francesco De Lorenzo”, scriveva Macry. “Non notabili, non semplicemente leader politici, ma ‘i viceré’. Quanto ad Antonio Bassolino, venne riconosciuto come principe rinascimentale. E Luigi de Magistris come Masaniello, il re dei dieci giorni. Tutti sovrani, comunque, per la loro personalità forte, la capacità carismatica, la vocazione al comando paternalistico, l’intenso rapporto con il popolo, la tendenza a farsi bandiera identitaria della comunità”.
L’esatto opposto dell’ingegnere. Né carisma né paternalismo, tampoco intensità di relazioni con le folle o dispiegamento di vessilli identitari. Non potrà, come fece Lauro con Hasse Jeppson, comprare un calciatore prestigioso al Napoli, né mai nella sua stanza a Palazzo San Giacomo metterebbe la fotografia di Che Guevara come fece de Magistris. Pertanto chi scommette su di lui, su questa Napoli senza monarca né un Masaniello sceso dal quartiere Vomero? Viene spontaneo chiederlo allo stesso autore di quel saggio storico tre anni dopo la pubblicazione: “La vittoria di Manfredi è il segno che in questo momento la malìa della regalità è venuta meno, perché i dieci anni di de Magistris, con tutte le sue stigmate da ultimo sovrano, sono stati troppo difficili”, risponde Macry. “Ci chiediamo se l’elezione di Manfredi sarà una svolta durevole o una semplice sospensione del populismo. E’ tutto da vedere, ma direi che ce ne vogliono, di Manfredi, prima di cancellare l’anima monarchica della città. Però e perciò, gli faccio tanti auguri”.


Cautela di storico professionista o prudente stile da Sibilla Cumana? Macry non elude: “Il tasso di astensionismo elettorale testimonia che la città è rimasta, dopo il decennio de Magistris, spolpata della sua tradizione populista e regalista: basti guardare alla débacle dei 5 Stelle, più clamorosa qui che altrove. Manfredi è un tecnico di qualità e ha la possibilità di guidare un’amministrazione improntata al modello nazionale Draghi, utile per certi versi ma pericolosa per altri, perché Napoli ha anche bisogno di visione politica. Manfredi non dovrà solo riempire le buche, ma ricostruire una città che è stata risucchiata nel nulla”. Subentra poi, ma fuori virgolette, il professor Macry automobilista, costretto per motivi abitativi ad aggirare il blocco della Galleria della Vittoria e imbottigliato, la sera prima di questo colloquio, più di due ore nel traffico.


Nutriti di archetipi collettivi tra cui quelli dimenticati sono i più tenaci, i napoletani attribuirono per tutto il Medio Evo a Virgilio mago l’apertura della Galleria che collegava Mergellina alla zona flegrea, la Crypta Neapolitana scavata nella montagna in un istante con la potenza dell’incantesimo. Perciò l’incubo di una Galleria che resta chiusa, oltre ai disagi materiali, con il suo simbolismo ha ridestato verso de Magistris l’ostilità diffusa per un mago fallito. Pericolosa approssimazione alla successiva, temutissima qualifica di jettatore. (Tra lui e Manfredi ha conquistato una parentesi, che è questa, il magistrato Catello Maresca. Giunto in ritardo sui tempi della politica, o della sua declinazione pop, aveva pensato che il carisma da pm funzionasse per se stesso come già per de Magistris. Con spietato realismo commenta Macry: “Sostenendo la sua candidatura a sindaco, il centrodestra ha rivelato l’ennesima inadeguatezza: appariva evidente che riproporre la mitologia della toga nell’epoca di Palamara fosse grottesco e fuori tempo massimo”).


Non auspica il tocco euforico del mago, ma la mano paziente di un sindaco operoso lo scrittore Jean-Noël Schifano, traduttore di Eco e Sciascia in francese nonché orgoglioso cives neapolitanus: “Alla città serve un uomo che faccia, non uno che la rappresenti. Prima di inscenare qualsiasi rappresentazione, bisogna costruire o ricostruire il teatro. Napoli ha bisogno di persone che realizzino cose pratiche ed elementari perché un sindaco, per parafrasare Totò, è come la serva: serve. Il suo è un mestiere umile, che va svolto con fierezza ma senza mai cadere nella tentazione autocelebrativa. I primi cittadini dal gesto eclatante possono fare colpo, però alla lunga non incidono sulla realtà: è con gli atti, non con i bei gesti, che si cambia”. Schifano, tornato a Napoli nei giorni scorsi per presentare il nuovo libro (‘Il vento nero non vede dove va. Cronaca satirica italiana’, pubblicato da Colonnese), fa coincidere metafora e realtà: “Quando incontrai de Magistris mi salutò con una mano molle e liquida mentre i suoi occhi guardavano altrove. Credo che questo riflettesse il personaggio: una primadonna narcisa, liquida e sfuggente. Qui invece occorre una mano di ferro e mi conforta il ricordo di Manfredi quando me le presentarono una volta a Roma: la sua fu una stretta energica”.


Capitano del popolo più che sovrano, Masaniello più che Borbone, nel suo declino il de Magistris “liquido” di Schifano appare liquidato anche con la svalutazione del physique du rôle. Stazza assai più solida, al di là dei meriti, ebbero certi predecessori vicini o remoti: dalla vasta mole di Gennaro Sambiase Sanseverino, duca di San Donato, alla ruvida scorza conciata dal mare del ‘Comandante’ Lauro, ginnasta mattiniero fino a tarda età. Prototipo di tutti anche loro malgrado fu Ferdinando II di Borbone, il quale seppe, nella città dove “ogni idea è una persona”, che la fisicità viene associata alla regalità. L’intreccio fu così profondo da premonire con l’agonia del re quella del regno, come dovette constatare, spinto a pietà dalla stupefazione, persino l’oppositore Nicola Nisco (“Io non descriverò le angosce di una persona, che, ancor viva divenuta cadavere, procede, terribile spettacolo a sé stesso, nella dissoluzione della materia che la costituisce. Nei momenti di passioni ardenti, rese corrive dalle dispotiche oppressure, si può scusare il diletto di simili racconti: oggidì sarebbe atto ingeneroso”).


Ma dove s’è dissolta la moltitudine che votò e plaudì alla “rivoluzione arancione” inscenata da ‘deMa’? Forse ha semplicemente ripercorso la parabola presunta dal sagace primo ministro dell’esule Francesco II, ultimo monarca borbonico: il volubile popolo napoletano “ha d’uopo della fede e dell’entusiasmo di duci”, notava Pietro Calà Ulloa, che così lo dipinse: “Facile e proclive a illudersi, si stupisce, se disilluso, e non si rinfranca”.


Per “rinfrancarlo” la scommessa antisovranile di Manfredi dovrà perciò, secondo Diego Guida, ricondurre a Palazzo San Giacomo “dopo la fine del populismo la Politica con la P maiuscola”. Discendente dalla famosa dinastia editoriale napoletana, vice presidente dell’Associazione Italiana Editori, Guida suggerisce al sindaco “di cominciare con una partenza fulminante. I segnali di concretezza devono essere lanciati già nei fatidici primi cento giorni, per trasmettere alla città un sentimento di entusiasmo ritrovato. Malgrado le difficoltà ereditate, che ovviamente vengono al pettine, le premesse per una ripartenza ci sono a una condizione: che il ‘Patto per Napoli’ con il governo centrale, di cui tanto s’è parlato nelle scorse settimane, trovi attuazione concreta e non sia stato solo un messaggio utilizzato in campagna elettorale. Sono arrivati i primi cento milioni per la riqualificazione dell’Albergo dei Poveri, ora aspettiamo quella degli ex Magazzini Generali al Molo Beverello, poi si potrebbe immaginare la creazione di un Museo dell’arte tipografica, che ha rappresentato un’eccellenza storica di Napoli e che auspichiamo da tempo. Questa città offre opportunità fenomenali nell’ambito della cultura. Manfredi stesso ne ha fatto una bandiera. Credo che il suo obiettivo debba andare al di là della riparazione delle buche, con la realizzazione di progetti per cui verrà ricordato”.


Incombe per mestiere, su ogni cronaca dei paradossi, il rischio atroce della banalità. Eppure non si fa peccato ad annotare che la città italiana con il maggiore surplus di autonarrazione fra romanzi, cinema e serie tv è anche un posto dove si legge troppo poco: “Su cento libri venduti in Italia”, ricorda Diego Guida, “solo quattro lo sono in Campania”. Intanto la cronaca grezza, materia prima che lavorata diventerà racconto da esportazione, impasta altro sangue e nuovo allarme per l’uccisione dei cosiddetti ‘baby boss’ e per la replica puntuale di violenze nella movida (fenomeno amplificato ovunque da quando il fervore ludico del sabato è etichettato con quest’usurato vocaboletto almodovariano). L’arcivescovo Mimmo Battaglia, pastore di Napoli da meno di un anno, ha già lanciato un appello a Manfredi e ha approntato in Curia la bozza di un “Patto educativo” per strappare i giovanissimi dalle insidie dei clan. La malavita ha sfruttato la pandemia e la distrazione generale per occupare nuovi avamposti. E’ quanto sostiene il più autorevole storico della camorra, Francesco Barbagallo, il quale accusa “la politica” locale e nazionale perché avrebbe finto di non vedere l’espansione criminale, lasciando i magistrati e le forze dell’ordine isolati nella lotta. (Gli animi più pignoli rinfaccerebbero i proclami incompiuti contro l’illegalità al primo de Magistris, quello più vicino al pm che andava in tv da Santoro, e la sua promessa di un foglio di via anche per i parcheggiatori abusivi – oggi sopravvissuti al suo addio).


C’è sempre il rischio che il mito del monarca, abortito nelle urne, si riaffacci dalle zone grigio-nere dell’area metropolitana. Perché Napoli non ha contato solo i “sovrani” della lista Macry, ma numerosi personaggi consegnati dalla cronaca alla storia: il re del contrabbando Michele Zaza, il re di Forcella Luigi “Lovegino” Giuliano o prima ancora Giuseppe Navarra re di Poggioreale, ambigua figura di self-made man che bordeggiava a proprio modo la legge quando arrivarono le truppe americane nella Seconda guerra mondiale. Fu Navarra il primo napoletano cui venne rilasciato un porto d’armi dalle autorità occupanti e fu lui che da solo, salvo la compagnia del tremebondo principe Colonna di Paliano, riportò nel ‘47 sulla sua automobile, nel periglioso tragitto da Roma a Napoli, il bene più prezioso della città: il tesoro di san Gennaro, valore stimato in tre miliardi di lire dell’epoca, che il re di Poggioreale consegnò intatto nelle mani del cardinale Alessio Ascalesi. (Un trafugamento del tesoro s’azzardarono soltanto a immaginarlo Ernesto Serao nel romanzo feuilleton “Il capo della camorra” e Dino Risi nel film “Operazione San Gennaro”, ma con restituzione assolutoria).


Perché infine è al santo patrono, ossia all’identità di Napoli, che s’inchinarono e s’inchineranno tutti. Re autentici o presunti, re del bene e del male, credenti o miscredenti tra cui giacobini come il generale Championnet, massoni come Garibaldi, masanielli arancione e infine sì, ça va sans dire, ingegneri alla Gaetano Manfredi. Non s’offende, il patrono, per essere riprodotto in gadget di consumo turistico o effigiato sulle mascherine sanitarie nei negozietti dei decumani; non s’offende se il volto che gli hanno immaginato sul murale di via Duomo è assai diverso dal suo; né s’offende con quanti da secoli, sempre con l’entusiasmo della novissima scoperta, annunciano che il prodigio del suo sangue è replicabile grazie a una formula di propria invenzione. Non s’offende nemmeno se la pagana devozione per Diego Armando Maradona s’aggiunge alla sua con un murale ancora più grande, non più di quanto lo offendessero le rudi esortazioni delle devote “parenti” quando tardava nella liquefazione.

Come cambierà Napoli con Manfredi sindaco

Non s’offende il santo e non s’occupa di politica, perché è stata la politica a occuparsi di lui, anche quando divennero sindaci il comunista Maurizio Valenzi o il postcomunista Bassolino, il quale ha sempre ostentato i suoi omaggi. “San Gennaro nel sacro, e Maradona nel profano, esaudiscono il bisogno di modelli forti e positivi in cui si riconosce e si rifugia un popolo che troppo spesso s’è sentito trascurato”, dice Elda Morlicchio, rettrice per sei anni dell’Università L’Orientale. “La tentazione populista che attraversa la storia di Napoli e del Mezzogiorno non è lontana da quest’atteggiamento: il bisogno di avere un riferimento locale, di una figura che si recepisse a portata di mano per ascoltare da vicino il dolore e i bisogni della città. Quanto più è stato assente il governo centrale, tanto più è cresciuta la domanda di un ‘sovrano’ napoletano”. Eppure Elda Morlicchio scommette sul collega Manfredi: “E’ stato, come rettore e ministro, una persona competente e capace di ascoltare. Ed è questa la dote più importante di un sindaco: raccogliere le voci per dare una risposta. Ci vorrà tempo, ma se ciascuno farà la sua parte i risultati arriveranno. Se guardo al mio settore, penso che sia necessario attrarre più studiosi e studenti dall’Italia e dall’estero con l’offerta di un contesto favorevole, perché Napoli non dovrebbe accattivare solo per i monumenti e le testimonianze storiche, ma per la vivacità intellettuale in campo artistico, scientifico e accademico. L’invito che i colleghi stranieri sovente mi rivolgono è di recuperare l’orgoglio di appartenenza a questa città”.


Ma come si declinerà l’orgoglio? De Magistris sognò di esprimerlo sul “Lungomare liberato” con un enorme corno rosso visibile da Capri; Bassolino lo fece con il gigantismo di un’urbanistica ambiziosa, sicché Napoli ha le stazioni della metropolitana più belle d’Europa però quasi non passa giorno che le carenze del servizio finiscano in cronaca. Il flusso turistico ha punteggiato il centro antico di b&b, trasformando Spaccanapoli e San Gregorio Armeno in una rappresentazione plasticata che ricorda Venezia a uso degli americani. E l’iconico Gambrinus non è considerato più il Caffè di Salvatore Di Giacomo, Gabriele D’Annunzio e Ferdinando Russo, ma quello dove mangiava sfogliatelle il commissario Ricciardi. Sul retro, invece, la nuova cartolina oleografica presenta il brivido notturno della ricorsiva narrazione criminale. C’è il rischio di un’imbalsamazione che faccia rimpiangere il passato, ossia “gli anni Settanta e Ottanta”, commenta Macry, “della città dove arrivai quand’ero giovane. Con il teatro d’avanguardia, il sound napoletano, la Fondazione Napoli 99, le grandi mostre d’arte e i grandi vecchi della cultura, anche i ‘tromboni’, comunque personaggi di una statura che adesso non c’è più. Ricordo quella come una stagione da ‘cento fiori’ spazzata via con tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica, cui seguì l’epoca assai meno pluralista del bassolinismo: parve quasi un regime, però produsse anche risultati apprezzabili”.


Mentre prende le misure a una macchina amministrativa che ha definito “disastrata”, mentre soppesa col neo assessore al Bilancio Pier Paolo Baretta il disavanzo da due miliardi e 300 milioni, l’ingegner Manfredi ha già lanciato il primo appello con la fascia tricolore: “Alla concretezza delle azioni e all’unità istituzionale”, alla necessità “di una ripartenza degna della storia di Napoli”, al ripristino “delle condizioni di vita compatibili con una grande città europea”. Parole da “secchione” che dovrà sudare, sommesso e cocciuto, per far dimenticare la sopita voglia di gridare “Viva ‘o rrè” a chi si presenterà al prossimo appello.