I diari di Marcello Dell'Utri

Salvatore Merlo

Intervista-compendio al fondatore di Publitalia. Forza Italia, Arcore, Rebibbia, da Letta a Previti. Trent’anni di storia italiana attraverso le memorie di un allegro sconfitto. “Ne è valsa la pena, ho vissuto”

Ma è vero che Berlusconi le baciava le mani, e la chiamava don Dell’Utro? “Certo che è vero. Noi raccontavamo persino spiritosaggini su Mangano, il famoso stalliere di Arcore. Ci inventavamo storie. Il Cavaliere mi sfotteva. Ridevamo come matti. Ma le pare che uno fa così se ha un mafioso in casa? Le racconto una cosa che la prego di non scrivere, perché chissà come viene interpretata. Qua nessuno sembra capire l’ironia”. Ma no, carissimo don Dell’Utro, l’ironia è il giusto salvacondotto. “Guardi che la usano contro Berlusconi”. Ma no, ormai il Cav. è in via di santificazione. “In effetti lui pensa di andare al Quirinale. Cosa che io… boh… mi pare improbabile. Anche se io a Silvio gli ho visto fare cose che sembravano impossibili. Quindi mai dire mai”. In effetti lui fa tutto in grande. “Sì, pure il Bunga Bunga”.

 

E Marcello Dell’Utri, ottant’anni, ex senatore, fondatore di Publitalia, ex detenuto di Rebibbia matricola numero 103729, sembra un gatto di marmo. Però ironico. Quindi ci pensa un attimo. Si stropiccia la palpebra destra. E poi: “Va bene, gliela racconto la storiella su Mangano”. Evviva. “Questa storia Berlusconi la ammanniva ai suoi ospiti. Aggiungendo o sottraendo dettagli, sempre di fantasia, a seconda del momento. Eccola. Un giorno scoppiò un piccolo incendio in un campo di tiro al piattello che confina con il giardino della villa di Arcore. E siccome Berlusconi qualche settimana prima si era lamentato con Mangano dei rumori che la domenica da quel campo di tiro a piattello gli impedivano di riposare, ecco che dopo l’incendio Silvio lo chiama. E gli chiede: ‘Vittorio, ma che è successo al tiro al piattello?’. E quello, in palermitano, che sembrava uscito da un film su Cosa nostra: ‘Cortocircuito fu’... Ma ve la immaginate la scena? Berlusconi si sganasciava dalle risate. La raccontava a chiunque. E la coloriva. Aggiungeva particolari inventati. Se avessi mai immaginato che tutto questo mi sarebbe costato sette anni di carcere…”.

Mentre parla, Dell’Utri è come una cariatide finalmente libera del suo fardello. “Al carcere ormai non ci penso più. È un sogno lontano. È stato peggio il Covid”, dice. Sette anni, due passati ai domiciliari per concorso esterno in associazione mafiosa. Poi, pochi giorni fa, l’assoluzione per una vicenda giudiziaria completamente diversa. La mitologica Trattativa. Anzi, “quella gran minchiata della Trattativa”, come dice lui. “Certo che ho sofferto. Mi sono anche ammalato. Oggi ho una decina di stent”, aggiunge. E poi, con cupo sarcasmo: “Diciamo che anzi ormai ‘vivo di stent’”.

Ma parla senza rabbia, con una voce dolce e bassa. “Stavo in una cella due metri per tre, nelle mani della burocrazia carceraria che è un orrore. È fatta per annullarti. Una volta mi feci portare un libro antico, rilegato. Amo i libri. Li colleziono. E le guardie me lo consegnarono squartato, scotennato. È la regola, non lo sapevo: solo libri in brossura. E mai più di quattro. In carcere se vuoi qualcosa, qualsiasi cosa, devi riempire un modulo. Lo chiamano in gergo ‘domandina’. Per una penna, una matita, un volume… Ecco la ‘domandina’. Quando passava troppo tempo chiedevo alle guardie: ‘È arrivata la rispostina?’. E insomma certo che ho sofferto”, ripete. “Ma poi penso: ho anche letto molto, mentre stavo in cella. Ora ho ottant’anni. Sono vivo. In fondo va bene così”.

E un po’ sembra Robert De Niro in “C’era una volta in America”, il film di Sergio Leone, l’anziano ormai sconfitto e pacificato, l’ultimo sopravvissuto di una banda di amici che da giovani avevano comandato New York. Gli chiedono: “Cosa hai fatto in tutti questi anni, Noodles?”. E lui: “Sono andato a letto presto”. Dice allora Dell’Utri: “Oggi gioco a ping pong, prendo lezioni al centro federale. Mi preparo per un torneo ‘over ottanta’. Il mio maestro, che è di scuola cinese, mi dice che mentre tengo la racchetta devo essere ‘rilassato ma risoluto’. La trovo una bella filosofia, valida anche per il resto dei fatti della vita”. All’Università di Bologna, dove si è iscritto alla facoltà di Lettere – “i docenti venivano a farmi gli esami in carcere. Tutti trenta e lode e un solo ventisette in Antropologia culturale, che non ho avuto animo di rifiutare” – il professor Roberto Balzani, il famoso storico, gli ha proposto di fare la tesi con lui. Argomento? “La fondazione di Forza Italia”. Sarebbe forse il primo caso di una ricerca storica in cui l’autore della ricerca coincide con la fonte primaria. “E poi mi occupo della mia biblioteca qui in via Senato. Sto anche allestendo una biblioteca siciliana nella Valle dei Templi. Sa che adesso inizio a girare un docu-film sulla mia storia? Lo produce Sandro Parenzo. Io interpreto me stesso. Forse intervisterò Berlusconi. E chissà, anche Gian Carlo Caselli”.

 

E infatti non si lamenta, Dell’Utri. Non porta rancore a nessuno. Almeno in apparenza. Nemmeno ai magistrati? “Mi ricordo quando moltissimi anni fa mi convocò Antonio Ingroia. Un ‘babbasunazzo’, come si dice da noi”. Insomma un mezzo citrullo. “Aveva letto su un giornale che io sapevo dove era finito il fantomatico capitolo mancante del romanzo ‘Petrolio’ di Pasolini, perché un tizio mi aveva portato delle dubbie pagine dattiloscritte su carta velina. E allora Ingroia mi convocò. Chissà che pensava di scoprire”. Dell’Utri e Pasolini, materia per Sherlock Holmes. Fu prima o dopo la riesumazione del cadavere del bandito Giuliano? “Molto prima”. E ride, Dell’Utri, di un sorriso che con l’età lo fa assomigliare sul serio a Robert De Niro.

Nessun rancore, appunto. Nemmeno per Berlusconi, che non venne a testimoniare a suo favore nel processo sulla Trattativa. “Gliel’avevano vietato gli avvocati. Anzi per cinque anni gli hanno proprio vietato di incontrarmi, persino di parlarmi al telefono. Credo che il primo a soffrirne sia stato lui”. E qui un sorriso leggero, presto cancellato, gli distende gli angoli delle labbra. Gli avvocati sono cattivi per definizione? “Quando ero in carcere ho composto un decalogo dell’imputato ‘provveduto’. Non sprovveduto, attenzione: ma ‘provveduto’. Sa qual è il primo punto del decalogo?”. Dica. “Seguire i consigli degli avvocati… quando la pensano come te. L’ho imparato sulla mia pelle, come tutto il resto. Nel 1996 su consiglio degli avvocati andai a Palermo convocato in procura da Caselli e Lo Forte che dovevano chiudere un vecchio fascicolo che mi riguardava. C’erano i pasticcini sul tavolo, la cordialità di Caselli nei confronti del mio avvocato che era l’illustre Oreste Dominioni. Baci e abbracci. Ma a poco a poco mi rendevo conto che qualcosa non andava”. I magistrati prendevano appunti. Troppi appunti.

Il tanto temuto diavolo sospingeva il gomito dei magistrati, mentre quella loro penna troppo fluente scorreva e scorreva sul foglio durante l’interrogatorio. Con la scaltra instillazione di dicerie letali. “Non sapevano niente, e allora io li correggevo nelle date, nei luoghi… ma intanto le ore passavano e io cominciavo a capire che non volevano affatto chiudere il fascicolo ma anzi cercavano qualcosa per rilanciarlo. E quel qualcosa gliel’ho dato io”. Ciò che forse a lui sembrava una mera bagatella, le amicizie palermitane, lo stalliere Mangano e Tanino Cinà, ciò che insomma a lui appariva come la mera palla di neve di una curiosità transitoria che sarebbe durata lo spazio di un mattino, stava invece assumendo proporzioni enormi. Una valanga. Diventava un vessillo fiammeggiante. Che avrebbe sventolato per i successivi venticinque anni tra aule di giustizia, salotti televisivi e dibattiti parlamentari. Berlusconi e la mafia. Bum! “Alla fine quell’interrogatorio di Palermo è durato diciotto ore. Mi sono rovinato con le mie mani. Ero entrato con i pasticcini e ne sono uscito con un rinvio a giudizio. Avrei dovuto ascoltare il mio istinto e Giuliano Ferrara, l’unico che mi aveva detto di mandarli al diavolo e non andare. Ma che ne potevo sapere?”. Ed ecco allora il primo punto del decalogo dell’imputato provveduto. Com’è che era? “Seguire i consigli degli avvocati… quando la pensano come te”. E qui Dell’Utri alza improvvisamente la testa con uno sguardo vivace e ardente, come una fiamma coperta che trapassa la cenere e poi si riassopisce.

E però Vittorio Mangano e Tanino Cinà mafiosi lo erano sul serio. “Ma che ne sapevo io a quei tempi? Che ne sapevamo noi?”. E un po’, tuttavia, suggeriamo a Dell’Utri, c’era quantomeno della spavalderia da parte sua e del Cavaliere. Berlusconi aveva conquistato vette inimmaginabili, in pochi anni era diventato miliardario, nulla sembrava impossibile. Credevate di avere più corna del diavolo? “Audaci lo eravamo. Sicuro. Ma coglioni no. Mi ricordo quando Mangano e Tanino Cinà vennero a Milano dalla Sicilia. Berlusconi dopo averli squadrati, mi fa: ‘Uhm, accidenti che facce’. Ma bisogna capire il momento. Eravamo negli anni 70, e la faccia di Mangano poteva tenere lontani i malintenzionati in un periodo violentissimo della storia di questo paese. Una faccia da duro. C’erano i rapimenti allora. Mangano venne a vivere ad Arcore con la moglie, la mamma della moglie e le due figlie. Che giocavano in giardino con i figli di Berlusconi. Non sembrava un mafioso vero, sembrava il personaggio di un film con Alberto Sordi in Sicilia. Uno sul quale si può persino fare dell’ironia”. Con quella sensazione, chissà, buffa e inebriante, di peccato privo di pericolo.

  

E invece il secondo punto del “decalogo dell’imputato provveduto” qual è? “Ah beh, ovvio: mai chiamare a testimoni né amici né coglioni”. Però lei chiamò il Cavaliere a testimoniare sulla Trattativa, e lui non venne. “Appunto. Io non ho visto né sentito il mio amico dal 2014. Fino all’altro giorno”. Fino all’assoluzione in Appello sulla Trattativa. “E poi finalmente la voce di Berlusconi al telefono, dopo cinque anni”. Ed era cambiata quella voce? “Forse nella risata, meno allegra. L’età, i colpi della vita… Silvio è indistruttibile, ma ne ha subite tante. Un altro credo non avrebbe retto”.

Il segreto della forza di Berlusconi si racchiude forse in una formula geometrica: rapidità, scaltrezza e resistenza. “Lui è ancora quello che quando era all’università a Milano guadagnava i primi soldini vendendo i suoi appunti delle lezioni. Li ciclostilava sotto un titolo, una cosa tipo: ‘Tutto quello che c’è da sapere per superare l’esame di Filosofia del diritto’. E li metteva in vendita alla libreria Cortina, che c’è ancora, proprio di fronte all’università. Berlusconi è una forza della natura. Lo è sempre stato. Io ci ho studiato sui bigini scritti da Berlusconi”. Quando vi siete conosciuti? “Da ragazzi. Lui fu una delle prime persone che conobbi quando mi trasferii da Palermo per studiare. Mio padre mi aveva messo in guardia: ‘Marcello, tieni conto che a Milano non sono caldi come noi. Fare amicizia sarà un po’ più difficile’. E invece io dopo pochi giorni ero già a pranzo a casa di questo Silvio che mi faceva stare a tavola con sua mamma, suo papà, suo fratello e sua sorella. Come uno di famiglia. Così telefonai a mio padre: ‘Non ci crederai, ma io qua a Milano ho conosciuto uno che è più siciliano di noi’”.

E allora Dell’Utri ripete che non si è mai sentito abbandonato dal Cavaliere. Nemmeno quando il suo amico era scomparso. “Confalonieri veniva a trovarmi in carcere, almeno una volta al mese. E io gliene ero grato, più di quanto forse non sia mai stato in grado di fargli capire. Mi portava i saluti di Silvio. Sempre. Ma la verità è che io Silvio me lo sognavo pure la notte. Ripensavo ad Arcore. Ai tempi belli e lontani. Quell’uomo mi ha cambiato la vita”. L’ha fatta finire in galera anche. “Mi ha reso ricco, ma soprattutto mi ha fatto divertire, mi ha fatto sognare, mi ha permesso di fare cose che altri non fanno in dieci vite. Senza di lui forse oggi sarei un ex direttore di banca in pensione. Ma avete idea di quale corsa entusiasmante sia stata la vita con Silvio Berlusconi dagli anni Settanta agli anni Novanta? Seguendolo, noi abbiamo costruito un impero dal nulla, prima l’edilizia, Brugherio e Milano 2, la televisione con Canale 5, poi la pubblicità con Publitalia, il Milan degli scudetti e delle coppe dei campioni, la politica…”.

La loro gioventù insieme, la bella nottata, voluttuosa e facile come una romanza napoletana. Ne è valsa la pena? “Certo che ne è valsa la pena. Berlusconi vedeva cose che tutti noi, attorno a lui, ritenevamo impossibili. Un realizzatore di utopie”. Entrò in politica per farsi gli affari suoi? “Credeva nella possibilità di fare dell’Italia la prima nazione in Europa. Ma è vero che in quegli anni c’erano dei rischi che gravavano sulle sue attività. Mi ricordo benissimo quando il Credito Italiano gli chiese di rientrare con il prestito. Capimmo che volevano fare con lui quello che già avevano fatto con Rizzoli”. Spolparlo. “E allora reagimmo. La discesa in campo fu anche una difesa dell’azienda. Ma lui ci credeva al progetto di trasformare l’Italia”. Faceste eleggere Cesare Previti. Divenne ministro. “Avevamo due avvocati del gruppo, uno a Milano e uno a Roma. Vittorio Dotti divenne capogruppo alla Camera. E Previti ministro della Difesa”. Volevate metterlo alla Giustizia. “Ma Scalfaro si oppose, e aveva ragione. Io nel 1994 tenevo il libro con i candidati, e i due avvocati avrei preferito non metterli in lista anche se loro due insistevano moltissimo. Addirittura Previti venne ad affrontarmi a muso duro. E io ci rimasi molto male”. Perché non voleva candidarli? “Sesto senso, diciamo”.

Previti è diventato “il cattivo” del romanzo berlusconiano. E si è eclissato. Anche Dotti è scomparso dal proscenio, dopo il caso Ariosto. “Dotti era un grande avvocato milanese che noi, facendogli fare politica, abbiamo rovinato. Questa è la verità. La politica fa perdere la testa. Dopo il ribaltone del ’94, mentre si doveva designare un presidente del Consiglio per il governo tecnico, lui mi chiamava ogni sera”. E che voleva? “Mi ripeteva sempre la stessa cosa: ‘Posso farlo io il capo del governo, dillo a Silvio’”.

La politica è pericolosa. In ogni senso. E infatti Craxi rideva all’idea che Berlusconi entrasse in politica. Pensava si andasse a suicidare. “Altroché se rideva. Facevamo delle riunioni, e lui ci diceva: ‘Non superereste il 5 per cento’. Craxi era un uomo intelligente, ma Silvio ha dimostrato che si sbagliava. E non solo lui, anche molti di noi”. A proposito, scusi la domanda che non c’entra quasi nulla: ma è vero che Craxi faceva la pipì sulla tavoletta del water e il Cavaliere si alzava per ripulirla? “Certo che è vero. Craxi era alto, miope e distratto. E Berlusconi invece è sempre stato preciso e attento alle apparenze. Quello gli faceva la pipì sulla tavoletta del bagno della casa di Sankt Moritz, dove poi andavano gli altri ospiti. Quindi Silvio si alzava, con discrezione, e sistemava tutto prima che se ne accorgesse qualcuno”. E come erano i rapporti tra il Cavaliere e Craxi? “Silvio a volte lo subiva. Amore e odio. Vede, Craxi spesso era arrogante. S’arrabbiava se leggeva qualcosa che non gli piaceva sul Giornale. Telefonava. Gridava. Strillava cose irripetibili contro Montanelli. E Silvio ci restava malissimo, diceva ‘ma secondo te Montanelli sta a sentire me?’”.

E voi, gli amici, eravate sempre lì. Berlusconi, Confalonieri, Dell’Utri e Galliani. Quattro cuori e un biscione. “Li ho rivisti l’altro giorno, Fedele e Adriano. Alla festa di compleanno di Berlusconi ad Arcore. Quando finalmente l’ho potuto riabbracciare. C’erano i figli di Silvio, i nipoti. Tutta la famiglia. E poi c’erano Confalonieri e Galliani. Allora Berlusconi ha detto: ‘Ho invitato solo tre amici’. E io: ‘Gli unici che sono rimasti in vita’”. E Gianni Letta? “Sa come lo chiamavamo?”. No. “Smorza Italia, per il suo essere amico di tutti. Se c’era un incarico da dare a qualcuno, lui lo dava a uno della sinistra. È fatto così Letta. È la sua qualità”. Era quello più contrario all’ingresso di Berlusconi in politica nel 1994. “Sì. Una volta mi prese da parte dicendomi con forza che dovevo smetterla di aiutare Silvio con questa idea suicida della discesa in campo”. E lei? “E io gli rispondevo: ‘Ma secondo te io posso non fare quello che mi dice Silvio?’. Ma lui insisteva. Proprio voleva impedire quello che considerava un errore fatale”. E come finì? “Che il giorno dopo la vittoria alle elezioni Letta era già a Palazzo Chigi”.

 

Le bastonate degli anni non sono valse a togliergli una pellicola di ironico candore che lo protegge, come la buccia d’un frutto. “Qui avevo duemila metri quadrati di spazio”, dice mentre giriamo al piano terra di un magnifico palazzo di via Senato, al numero 14, il centrissimo di Milano. Quella che una volta era casa sua. La facciata aristocratica, e all’interno un insospettabile e rigoglioso giardino. “Non me lo potevo più permettere. Ero in affitto dalla Cariplo, oggi Intesa Sanpaolo. Troppo caro. Gli avvocati, sa. Costano. Qui avevo allestito il Teatro di Verdura, lì alle spalle c’è il giardino reale. Avevo spazi per allestimenti. E la biblioteca, soprattutto”. Ora confinata in un’ala minore, un decimo di quello che era. E i libri? “Negli scatoloni”. Sospiro. “Avevo anche il mio appartamento qui, la mia casa di sempre. L’ho dovuta lasciare”. E dove abita adesso? “Abito a Milano 2. È bello, certo. Ci sono gli alberi. A Silvio gli altri costruttori dicevano che ne piantava troppi, che era pazzo. E invece sono passati cinquant’anni e ora quegli alberi sono diventati enormi, magnifici. Insomma non mi lamento. Sto benone. Anche se lì forse un po’ mi annoio. A me piace la città”.

E infatti è sempre qui che viene, e passa le sue giornate. In via Senato. Tra le boiserie e il busto di Dante. Di fronte allo schedario, sulla scrivania ingombra di carte, fatture e corrispondenza varia ci sono le bozze di due libri con un bigliettino di accompagnamento. È di Paolo Del Debbio. Il giornalista, il conduttore Mediaset. “È una persona colta, e per bene”. Fanno un po’ i populisti a Mediaset. “Hanno fatto la televisione di Salvini, sì. E che ci possiamo fare? È il clima che c’è dentro l’azienda, credo. Populismo e demagogia. L’unico che si arrabbia ogni tanto è Silvio”. E Confalonieri? “Secondo me non la guarda tanto la televisione. È troppo raffinato. E il tempo è poco”.

A lei non piace Salvini. “Per niente. Preferisco quelli che non urlano, che non sparano minchiate dalla mattina alla sera, che parlano poco. Meno parli più fai. E infatti Draghi mi ha convinto, mi piace lo stile. E mi fa anche simpatia epidermica. Non va neanche in televisione. Fantastico”. La politica le interessa ancora? “Vedo che ci sono spazi da conquistare, praterie. Lo intuisco. E penso con rammarico al fatto che vent’anni fa avevo coltivato l’idea di una scuola di politica, con i circoli del buon governo”, dice, mentre brucia, dissimulandola, una scoria di tristezza. E qui Dell’Utri mostra una spilla che porta al bavero della giacca. È un piccolo cerchio rosso. “Non è la spilla della Cgil. Ma quella dei miei circoli”, precisa con un certo grado di spiritosa nostalgia. “Quei ragazzi che li frequentavano, oggi sono quarantenni. Magari oggi ne sarebbe uscito qualcuno buono. Un gruppo di dirigenti. Peccato non aver potuto continuare”.

A Milano ha votato Beppe Sala? “No, non mi piace. Ma non ho votato nemmeno il ‘nostro’ candidato. Mi faceva pena”. Chi avrebbe candidato lei? “Albertini. Forse avrebbe avuto successo, anche se era un po’ una minestra riscaldata. Ma la verità è che quelli bravi la politica non la vogliono fare più. Si rischia troppo, ci si rovina. In politica vanno quasi sempre quelli che non hanno combinato nulla nella vita, e che dunque non hanno niente da perdere”. E Giorgia Meloni? “Che le devo dire? È brava. Ma è un’altra urlatrice. Dovrebbe lavorare sul tono. È come se un attore, invece di conquistare la platea suadendo, cerchi di assordarla gridando. La gente brava la dovevamo portare noi… prima”. E invece? “E invece è andata male. Il Berlusconi politico non c’è riuscito. Dopo di lui non resta niente. Mentre nel mondo dell’impresa è stato diverso”.

 

Berlusconi è divampato come una fiamma, la sua immagine di politico, impresario e circense, ha mimato drammaticamente e correttamente quel fuoco. “Guardi che noi, in azienda, abbiamo coltivato talenti. Da Publitalia sono usciti ottimi manager. Ragazzi cresciuti da noi che hanno avuto successo. Prendevamo i migliori laureati dalla Bocconi e dalla Luiss, a un certo punto facevano la fila per venire. Anni fa incontrai Vincenzo Novari, uno dei dirigenti d’impresa più importanti del nostro paese. Mi si avvicina e mi dice: ‘Lei mi ha fatto un grave torto’. E io rimango di sasso. Costernato. Chiedendomi cosa mai gli avessi fatto. ‘Lei quando avevo vent’anni non mi assunse a Publitalia e mi scartò in un colloquio’. Da noi lavorò Riccardo Ruggiero, che è stato Amministratore delegato di Telecom, e anche Rodrigo Cipriani che è il capo di Alibaba per l’Europa”. E poi Urbano Cairo, l’editore del Corriere della Sera e di La7. “Certo. Si presentò da me dopo aver letto un’intervista di Berlusconi su Capital. Silvio invitava i giovani con idee a telefonargli. Cairo fu l’unico a telefonare. Forse anche perché era l’unico che l’aveva letta quell’intervista. Era un ragazzo sveglio, gli feci fare l’assistente personale di Berlusconi. Poi lo mandammo a lavorare in Publitalia, prima a Bologna a farsi le ossa e poi a Milano. Infine in Mondadori, dove lui però decise di andarsene con l’arrivo di Franco Tatò”. Veramente l’avete licenziato. “Ma quando mai?”. Cairo lo racconta sempre: lui è la prova vivente che non è vero che Berlusconi non ha mai licenziato nessuno. “Guardi che è una bugia. Se ne andò lui. E le racconto anche perché se ne andò: aveva vissuto come una deminutio lo spostamento a Mondadori. Cosa che in realtà era una promozione. Ma poiché voleva prendere il mio posto di capo di Publitalia, cosa impossibile, si arrabbiò. Lui era, ed è ancora, un tipo assai rampante. E se posso, anche un pizzico irriconoscente”. Si riferisce a come l’ha trattata La7 in questi anni? “So bene che un editore bravo non interviene. Ci mancherebbe. Però, diamine, lui mi conosce. Come può pensare di me le cose che dicono in alcune sue trasmissioni? L’informazione è una cosa. L’accanimento è tutto un altro paio di maniche”.

E per Dell’Utri il più grande accanimento, però, è stato il carcere. Così, mentre il sole si abbassa su Milano, poco prima di salutare, ecco un lampo: “Le racconto cos’è il carcere”. La ascolto. “Quando ero a Rebibbia capitava spesso che i miei compagni di pena venissero a trovarmi per chiedere consigli. Persino legali. Malgrado io non abbia mai esercitato l’avvocatura. Ebbene un giorno entra un tizio e mi dice: ‘Dottore, lei è una persona importante, mi deve aiutare. Ho bisogno di un avvocato. Uno bravo. Uno di quelli che conosce lei. Io voglio fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Sono sicuro di vincere. Vede, dottore, io sono ergastolano... ma sono una persona perbene. Ero un imprenditore. Uno che ce l’aveva fatta. M’ero comprato una bella villa, frutto del duro lavoro di una vita. Ma un giorno arrivano i carabinieri e mi dicono che la devono sequestrare, che va abbattuta, perché costruita in parte su terreno demaniale. Lei non immagina la mia angoscia. Corro subito dall’avvocato. E quello mi rassicura. Mi dice che ci sono tutti i presupposti per vincere un ricorso. Lo facciamo, e perdiamo. Allora torno da lui, che mi rassicura di nuovo: facciamo appello. E perdiamo anche questo. Torno ancora per la terza volta, e l’avvocato mi garantisce che nulla è perduto. Anzi. Andiamo in Cassazione. Ma perdiamo pure lì. A quel punto i carabinieri sono tornati per notificarmi il sequestro e la vendita della villa. Sa chi l’aveva comprata? Il mio avvocato. Dunque decido di incontrarlo per l’ultima volta. E gli sparo. Dottore, ora lei mi deve aiutare: mi serve un avvocato”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.