PUBBLICITÁ

Conte nel labirinto della doppiezza

Salvatore Merlo

Il premier teme il tranello in un Parlamento che nessuno controlla più

PUBBLICITÁ

Quella che prima era la sua forza ora è diventata la sua debolezza. E alla fine il Parlamento incontrollabile, quel luogo confuso che gli aveva consentito di diventare indispensabile, unico punto d’equilibrio possibile, l’ha invece inghiottito. Così ieri sera, a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte alla fine ha esalato la sua parola più scabrosa e sofferta: “E va bene, mi dimetto”. Dunque stamattina salirà al Quirinale. Ma difficilmente troverà nel presidente la mappa per uscire dal labirinto nel quale s’è ficcato, nel quale l’hanno rinchiuso i partiti e i gruppi parlamentari in preda a spinte e contro spinte, attraversati da un caos nel quale si perdono tutti i punti di riferimento. E così, malgrado una pienezza calda e rumorosa gli assordi le orecchie (“mi dimetto ma ritorno a  fare il premier”), l’esito di questa crisi per lui  non è affatto scontato: le promesse — “ritorni tu” — valgono quel che valgono. Zero. Nessuno può garantire nulla, da tempo. E infatti Crimi e Grillo hanno difeso Conte, ma alla fine i gruppi grillini e Di Maio hanno lavorato per un altro risultato. E nel Pd Bettini e Zingaretti escludevano qualsiasi riapertura a Renzi, ma sono stati travolti anche loro dai gruppi parlamentari che non controllano. Così nel Palazzo è ritornata la doppiezza, che tuttavia non è più l’antica ginnastica di democristiana intelligenza. Ma è la manifestazione di un malessere.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Quella che prima era la sua forza ora è diventata la sua debolezza. E alla fine il Parlamento incontrollabile, quel luogo confuso che gli aveva consentito di diventare indispensabile, unico punto d’equilibrio possibile, l’ha invece inghiottito. Così ieri sera, a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte alla fine ha esalato la sua parola più scabrosa e sofferta: “E va bene, mi dimetto”. Dunque stamattina salirà al Quirinale. Ma difficilmente troverà nel presidente la mappa per uscire dal labirinto nel quale s’è ficcato, nel quale l’hanno rinchiuso i partiti e i gruppi parlamentari in preda a spinte e contro spinte, attraversati da un caos nel quale si perdono tutti i punti di riferimento. E così, malgrado una pienezza calda e rumorosa gli assordi le orecchie (“mi dimetto ma ritorno a  fare il premier”), l’esito di questa crisi per lui  non è affatto scontato: le promesse — “ritorni tu” — valgono quel che valgono. Zero. Nessuno può garantire nulla, da tempo. E infatti Crimi e Grillo hanno difeso Conte, ma alla fine i gruppi grillini e Di Maio hanno lavorato per un altro risultato. E nel Pd Bettini e Zingaretti escludevano qualsiasi riapertura a Renzi, ma sono stati travolti anche loro dai gruppi parlamentari che non controllano. Così nel Palazzo è ritornata la doppiezza, che tuttavia non è più l’antica ginnastica di democristiana intelligenza. Ma è la manifestazione di un malessere.

PUBBLICITÁ

  

I tempi sono sempre più infidi, le gerarchie sempre più instabili, non di rado le porte si rivelano finte, o danno su uno sgabuzzino polveroso, su una fogna, sul vuoto: il potere non è più lì, forse non è mai stato lì. Con chi bisogna parlare? Chi dà ordini ai gruppi parlamentari? Chi può garantire quel patto “siglato col sangue” che Giuseppe Conte ha richiesto alle segreterie di partito, ai leader della maggioranza?  Tutto è congettura, speranza, rappresentazione opinabile. Per quasi tre anni il presidente del Consiglio ha imperato grazie a uno spirito d’iniziativa senza riscontri, a un fiuto esatto per la debolezza del Parlamento. Prima nella fragile intesa tra Lega e grillini, poi nel marasma dell’alleanza tra un M5s esploso  e un Pd che né al Senato né alla Camera risponde al suo segretario. Magma in cui ribolle  una miriade di correntine tra cui la più grossa è quella che un tempo apparteneva a Matteo Renzi. Adesso questo stesso composto instabile, che pure aveva garantito forza, per Conte diventa ragione di paura e di preoccupazione. Incertezza. Ragione per la quale, fino all’ultimo, ancora ieri sera,  il presidente del Consiglio chiedeva rassicurazioni con sguardi acquosi e invitanti al compatimento. Il ter. Il reincarico.  

 

PUBBLICITÁ

Questo chiede Conte. E le promesse ci sono state. Ma ci si può fidare?  Le forze politiche sono talmente disgregate, doppie e triple, sono così parcellizzate e attraversate da così tanti rivoli d’interessi contrapposti, che il tranello è dietro l’angolo. Di Maio non vuole ciò che il povero Vito Crimi, reggente spernacchiato dei grillini, promette al premier e al suo portavoce Casalino. E i parlamentari del Pd rispondono più a Lorenzo Guerini che a Nicola Zingaretti, più alle strategie di Franceschini che a quelle di Bettini. Così davvero Conte è entrato in un labirinto dal quale non sa più come ne uscirà: Terconte o avvocato di Volturara Appula? Ecco allora gli  infiniti, deliranti spacchi prospettici che d’improvviso hanno deformato la condizione ideale nella quale il premier senza partito fin qui era riuscito a prosperare. La forza che si tramuta in debolezza. Di Maio gioca alle tre carte. Franceschini o Guerini potrebbero voler andare loro a Palazzo Chigi.

 

Anche  l’opposizione è insondabile e ambigua. E nemmeno lì è possibile riconoscere una strategia. Silvio Berlusconi gioca su tutti i tavoli, e dà l’impressione di non aver più una presa saldissima su quei parlamentari che d’altra parte non vede da mesi. Persino la Lega è una strana bestia, inintellegibile: un giorno Giancarlo Giorgetti apre a un governo di unità nazionale e il giorno dopo Matteo Salvini lo smentisce. Di capriola in capriola. Un festival barocco della parola, in cui la doppiezza non rimanda più all’astuzia diabolica di Andreotti, ma all’improvvisazione dei dilettanti. Tutti governati da   un fluido che è la sorte pura, non più l’azzardo ma il caso.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ