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La rivincita del partito

"Matteo, dobbiamo fare un partito o faremo opposizione a vita". L'avviso di Giorgetti a Salvini

Il confronto tra il leader della Lega e il suo vice. Gli Stati generali del M5s e l'assemblea nazionale di Italia viva. La democrazia liquida non va più di moda

Valerio Valentini

Da novembre, la Lega avvierà il processo verso le nuove segreterie territoriali e regionali. Ma non è solo il Carroccio che si darà una nuova struttura: anche M5s e Iv sono alle prese con la riorganizzazione. La politica riscopre l’irrinunciabilità dei suoi riti

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La raccomandazione, a prenderla così alla lettera, suona quasi insensata. Eppure dicono che Giancarlo Giorgetti fosse assai serio quando mercoledì l’ha pronunciata sul grugno del suo segretario: “Matteo, qui bisogna fare un partito”. Come a dire che quello attuale, la Lega per Salvini premier, non lo è. O non fino in fondo, almeno. Non come l’ex sottosegretario alla Presidenza, e con lui buona parte della vecchia guardia del Carroccio, ritiene necessario. E così, approfittando dell’imminente scadenza di novembre, quando la trafila burocratica necessaria per far transitare i vecchi iscritti della Lega nord nel nuovo contenitore troverà compimento, bisogna attrezzarsi per darsi struttura e organigramma, a livello non solo nazionale ma anche locale. Un partito, insomma. Un partito vero.

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La raccomandazione, a prenderla così alla lettera, suona quasi insensata. Eppure dicono che Giancarlo Giorgetti fosse assai serio quando mercoledì l’ha pronunciata sul grugno del suo segretario: “Matteo, qui bisogna fare un partito”. Come a dire che quello attuale, la Lega per Salvini premier, non lo è. O non fino in fondo, almeno. Non come l’ex sottosegretario alla Presidenza, e con lui buona parte della vecchia guardia del Carroccio, ritiene necessario. E così, approfittando dell’imminente scadenza di novembre, quando la trafila burocratica necessaria per far transitare i vecchi iscritti della Lega nord nel nuovo contenitore troverà compimento, bisogna attrezzarsi per darsi struttura e organigramma, a livello non solo nazionale ma anche locale. Un partito, insomma. Un partito vero.

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Che poi è esattamente quello di cui Salvini s’era illuso di poter fare a meno. E come lui i tanti profeti del tempo nuovo, i liquidatori del Novecento che forse con   troppa ansia del futuro s’erano convinti di potersi sbarazzare di questo impaccio, questo colosso molle e imprendibile che è  il partito agli occhi del leader. Il grillismo, per dire, era nato sul mito della democrazia diretta, della complessità del reale scomposta in byte da gestire con una piattaforma online. E ora il M5s ha un garante che delega un reggente a lambiccarsi il cervello per capire come demandare a dei “facilitatori” di allestire dei comitati provinciali o interprovinciali che producano dei documenti di sintesi da dover poi uniformare su scala regionale per essere infine discussi all’assemblea nazionale del 7 novembre, dove dei delegati  dibatteranno su una nuova burocrazia e magari anche un nuovo statuto, che superi i tre già esistenti (anche se il primo era una litote che voleva  negare se stesso: il “non-statuto”, ceci n’est pas un partito, appunto). Roba che al Beppe Grillo di qualche anno fa, di quando nelle piazze del V-Day sbraitava contro le “sedi di partito” avrebbe già fatto venire la labirintite.

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Perfino Matteo Renzi, d’altronde, che certo ben poco ha a che spartire coi trucismi e le scimunitaggini a cinque stelle, le ambizioni di farsi un partito leggero, zero complicazioni e molta fluidità di pensiero e d’azione, s’è deciso a rimandarle. Anche perché la sua Italia viva, ripudiando in origine le liturgie di prammatica, cominciava a vivere una certa fibrillazione anche nei gruppi parlamentari, dove deputati e senatori si contendevano tra loro la paternità delle iniziative e il controllo dei rispettivi territori, e talvolta si rinfacciavano a vicenda proposte e dichiarazioni. E così Gennaro Migliore si ritrova a rimproverare a Luigi Marattin di non aver condiviso coi compagni di squadra l’impalcatura della riforma fiscale, e il presidente della commissione Finanze, di rimando, contesta al collega di non essersi confrontato col gruppo prima di prendere posizione sui migranti. E insomma il 24 ottobre, nell’assemblea nazionale convocata a Milano, Renzi varerà un organigramma ben definito di Iv, dotando il partito di segreterie provinciali e regionali, con tutto quel che ne consegue.

 

Ma certo è nelle parole di Salvini, uno per cui finora i riti  di partito erano stati più che altro un gargarismo in cui rifugiarsi per commentare le sconfitte alle regionali, che questo zelo organizzativo sorprende. Eccolo allora vantarsi di aver avviato i lavori per inaugurare una segreteria politica come se fosse una novità concessa ai suoi seguaci, e non già la riproposizione di un organo consultivo di cui già il vecchio Bossi, che pure era allergico alle riunioni di Via Bellerio, si serviva. E infatti non si limita a quello, il disegno che Giorgetti – d’intesa col sempre operativo Roberto Calderoli, che si serve tutt’ora del suo fidato Aldo Morniroli, storico sindaco di Cassano Magnago e grande esperto di statuti – ha proposto, e in parte imposto, a Salvini. Perché quando il mese prossimo si concluderà la transizione dal vecchio al nuovo partito, col travaso degli iscritti, s’avvierà il processo che porterà, verosimilmente entro la primavera del 2021, a congressi di sezione, e poi provinciali, e poi regionali: così da eleggere i nuovi segretari e smantellare quella rete sbrindellata di commissari che, un po’ come sentinelle padane, sono state mandate da Salvini a incivilire il meridione. Con risultati, peraltro, assai discutibili, se perfino Vincenzo Sofo, europarlamentare del Carroccio eletto in Calabria, commentando coi suoi colleghi il flop alle regionali pugliesi dice che "al sud abbiamo preso gli scarti degli altri mettendo in lista degli impresentabili”.

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E insomma un partito ci vuole, insiste Giorgetti. E un partito non è un cenacolo di star dei social che segue l’indirizzo dei propri follower: e non a caso quelli che s’oppongono a questa trasformazione, nella Lega, sono proprio quelli che, come Borghi e Bagnai, la loro legittimazione politica l’hanno tratta dalla claque di Twitter. Un partito ci vuole, invece, anche per governare una svolta che dovrà esserci, a livello di alleanze europee: perché magari l’approdo al Ppe non è cosa imminente, ma è comunque un obiettivo da porsi entro il 2023, in vista delle prossime elezioni. “A meno che – ha detto il vice al  segretario – non abbiamo deciso di restare all’opposizione a vita”. Come a dire che se quello era l’obiettivo del Capitano era bene che la ciurma lo sapesse, per regolarsi di conseguenza.

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