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La resa di Kyiv oggi non è un desiderio aggiornato, ma lo stesso del primo giorno

Adriano Sofri

I mesi che sono trascorsi ferocemente hanno consentito di camuffare l’auspicio: dopo tante morti e violenze, tanta distruzione e umiliazione, è il momento di smettere di fornire l’aiuto militare, dicono. Ma è sempre la stessa paura che l'Ucraina vinca anche mentre perde

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La pace cosiddetta di quello che per noi è il secondo Dopoguerra è stata il frutto dell’equilibrio del terrore, la deterrenza mutuamente riconosciuta fra potenze e sottopotenze detentrici della bomba atomica. E’ successo solo che la cosa diventò abituale e pressoché inosservata. Se ne riparlava tutt’al più per certe manifestazioni di periferia, la Corea del nord, o certe aspirazioni di regimi teocratici dai programmi sterminati e sterminatori. C’è stato ora un brusco risveglio. L’atomica c’è, può essere impiegata, ne viene sbandierato l’impiego, l’impiego provocherebbe un impiego contrario e superiore, e così via. Si può far finta che l’impiego sia solo la fanfaronata di ricattatori allo sbaraglio, e procedere come se niente fosse. Dopotutto, si dirà, il mondo non può rassegnarsi a vivere sotto lo scacco di autocrati malviventi con la valigetta nucleare. Oppure tenerne conto, sapere che nessuna impresa forsennata è esclusa, tantomeno da parte di autocrati vicini a passare ad altra vita e attaccati al proprio epitaffio, e tornare alla vecchia ragionevolezza: fra proprietari della Bomba, non si può né vincere né perdere.

In Ucraina, di conseguenza, bisogna che non ci siano vincitori né vinti. Il linguaggio dei responsabili internazionali oscilla con una singolare leggerezza fra la proclamazione che qualcuno, Putin per esempio, “non deve vincere”, e la proclamazione solo apparentemente complementare, che Zelensky “deve vincere”. Fra le persone comuni, quelle che sempre più intrepidamente si radunano e auspicano cordialmente la pace e pronunciano il ripudio assoluto della guerra, di ogni guerra, il desiderio sottinteso, e a volte dal sen fuggito, è che l’Ucraina si sbrighi a perdere. La resa dell’Ucraina ha la grandiosa missione di salvare la pace nel mondo, almeno nel nostro mondo. I mesi che sono trascorsi ferocemente hanno consentito di camuffare l’auspicio: dopo tanto tempo, tante morti e violenze, tanta distruzione e umiliazione, è il momento di smettere di fornire l’aiuto militare che non fa che protrarre morti e distruzioni.

Ma non è un pensiero aggiornato. E’ l’aggiustamento del pensiero del primo giorno: l’Ucraina si arrenda, per il suo e il nostro bene. Perché mai posporre la disfatta che inesorabile incombe, e intanto vuole contagiarci, noi, quelli che stanno nella Nato e dicono di volerne uscire, quelli che stanno nell’Unione europea e magari non dicono più di volerne uscire ma sono comunque ostili a che ci entrino altri, quelli che Enrico Berlinguer e la sua morte coraggiosa e straziante, ma rimuovendo l’ombrello. Qualcuno ha paura che Zelensky, e l’Ucraina con o senza di lui, vinca, anche mentre perde. Qualcuno ha paura che Putin non vinca, anche mentre vince.

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